Ecco perché il blind trust in Italia è inutile e incostituzionale

Il meccanismo funziona solo per chi possiede azioni. Per «congelare» un imprenditore servirebbe l’esproprio, vietato dalla Carta

da Roma

«Il blind trust non è strumento utile a disciplinare il conflitto di interessi». L’ex presidente della Corte costituzionale, Vincenzo Caianiello, lo scrisse a chiare lettere ben cinque anni fa. In un parere pro veritate depositato alla commissione Affari costituzionali della Camera nel corso di un’audizione il 28 gennaio 2002, il giurista, scomparso nell’aprile di quello stesso anno, mise in discussione la validità dell’affidamento in «gestione cieca» come strumento di separazione degli interessi privati da quelli pubblici.
L’inidoneità può essere motivata sotto diversi punti di vista. In primo luogo, quello normativo. Se negli Stati Uniti con l’Ethics in government Act del 1978 è diventato quasi una regola a diversi livelli dell’amministrazione, lo stesso non può dirsi in Italia dove «non manca un regime ordinario e diffuso sulle incompatibilità». Vi è poi una peculiarità di questo istituto: esso concerne beni mobiliari o che possano essere facilmente convertiti in beni mobiliari di modo che il fiduciario (trustee) possa reinvestirli agevolmente senza che il proprietario venga a conoscenza dei settori nei quali è stato impiegato.
«Non è casuale - aggiunge l’ex presidente della Consulta - che la legislazione negli Usa abbia imposto il blind trust in alternativa a una dichiarazione avente i caratteri della “denuncia finanziaria”». Insomma, è uno strumento di prevenzione alla radice dei conflitti. Ben diversa è la «gestione cieca» di imprese, soprattutto se di notevoli dimensioni. «È comunque alla luce del sole - precisa - e l’interessato può conoscerne condizioni e assetti contingenti». Costringere Silvio Berlusconi al blind trust, quindi, non eliminerebbe il potenziale conflitto.
Vi sono poi i poteri di alienazione concessi al trustee dalla normativa internazionale che riguarda i trust (e ora anche dal pdl Franceschini). In questo modo, conclude il presidente emerito, non si «tiene conto del valore aggiunto che la dinamica dell’impresa serba in sé, né delle esigenze di continuità e salvaguardia degli assetti strutturali di essa», nonché «dell’incompatibilità costituzionale di qualsivoglia fenomeno di vendita coattiva». L’espropriazione è infatti consentita dall’articolo 43 della Costituzione solo per motivi di interesse generale.
Nel corso dell’audizione del 2002, Caianiello aveva anche messo in discussione altri aspetti normativi che si possono ritrovare nel pdl Franceschini. Per quanto riguarda l’incompatibilità, «chi verte in una condizione di benessere economico non è destinatario di un veto costituzionale che gli impedisca l'esercizio di funzioni di governo». Allo stesso modo, l’istituzione di un’Authority che vigili sui conflitti di interesse del governo è «un intruso» che rompe il vincolo fiduciario tra Parlamento ed esecutivo.
Analoghe considerazioni erano state esplicitate mercoledì scorso dal presidente della Consob, Lamberto Cardia. La facoltà di alienazione del trustee o l’obbligo di vendita delle partecipazioni in trust potrebbero colpire la «titolarità del diritto di proprietà», aveva detto sollevando dubbi di legittimità costituzionale. Senza tener conto che l’obbligo di vendita potrebbe non realizzare al meglio il valore dei beni ceduti.

L’origine «estera» dell’istituto creerebbe problemi di individuazione delle responsabilità in caso di mala gestione. Cardia aveva tuttavia lasciato aperto uno spiraglio all’ipotesi di «cieca gestione senza obbligo di dismissione» fissando regole precise per casi-limite come le adesioni agli aumenti di capitale.

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