«Ecco perché è una bufala che il federalismo costi di più»

Sul federalismo fiscale se ne sentono di tutti i colori. Costerà, farà risparmiare, farà aumentare il debito pubblico, lo ridurrà, significa un aumento delle tasse, vuol dire che in prospettiva le tasse diminuiranno. È il caso di fare un po’ di chiarezza con il viceministro dell’Economia Giuseppe Vegas, l’uomo che segue i nostri conti pubblici euro per euro. Chi ci assicura che i federalismo fiscale, alla fine della storia, non lo pagheremo noi contribuenti?
«Ce lo assicura la legge, che obbliga la riforma a rispettare l’invarianza della pressione fiscale. Al cittadino-contribuente il federalismo fiscale non deve costare un solo euro in più di maggiori tasse: si potrà pagare qualcosa di più alla Regione e al Comune, e qualcosa di meno allo Stato, ma sempre a somma zero».
Fin qui il principio, ma nella pratica come si riduce la spesa?
«Sui servizi pubblici essenziali si applica un costo standard nazionale. Niente più pagamenti a piè di lista, ma definizione di costi uguali per tutti: la stessa operazione di appendicite deve costare 100 a Bolzano e 100 a Trapani. Attenzione: il costo standard non è la media fra il più alto e il più basso, ma il più vicino possibile al basso senza pregiudicare la qualità. Così la spesa complessiva si riduce».
Come si definisce un costo standard?
«È ancora da definire: la legge non lo fa. La sola interpretazione possibile è quella di trovare il costo più basso per un dato servizio in un dato momento».
Ha visto quel che è successo in quattro Regioni con problemi grossi al bilancio della Sanità? Dovranno aumentare le tasse.
«Quel che è successo dimostra che il principio di responsabilità funziona. Intanto non ci troviamo più di fronte a sorprese tipo 6-7 miliardi di spesa non controllata, come avveniva nel passato. Le Regioni che sforano pagano di tasca loro».
I critici del federalismo fiscale non credono ai risparmi di spesa. Anzi sulla Repubblica si fanno cifre stellari - 133 miliardi di euro - per assicurare il passaggio al federalismo nelle materie strategiche: sanità, istruzione, assistenza sociale.
«Quello di Repubblica è.... diciamo un errore grossolano. Ammettendo pure che non ci siano guadagni sulla spesa, di certo non c’è maggiore spesa. Quella cifra è relativa alla spesa effettuata nel 2008, riclassificata - lo ha spiegato lo stesso professor Antonini, che guida la commissione tecnica - secondo una codifica unitaria. Lo Stato e gli enti decentrati già spendono quelle somme per pagare la sanità, l’istruzione e il welfare. Mah... ».
Insomma, non è un costo nuovo, aggiuntivo.
«No. La sanità, lo sappiamo tutti, è finanziata dall’Irap (che è un’imposta regionale solo nominalmente), e poi da trasferimenti dello Stato. Con le nuove regole, non ci saranno più i trasferimenti: cittadini e imprese pagheranno direttamente le imposte sanitarie regionali, ma a invarianza di pressione fiscale, quindi dando di meno allo Stato».
Insisto: magari non cresceranno le spese, ma non c’è il rischio di un inasprimento fiscale? C’è chi dice che il federalismo fiscale potrebbe funzionare nel medio termine, ma all’inizio costerebbe assai.
«Non ci può essere un aumento della pressione fiscale. Ci sarà un rimescolamento: un po’ più agli uni, un po’ meno agli altri. Ma il cittadino-contribuente è tutelato. Niente, proprio niente, ci fa pensare che all’inizio il federalismo fiscale possa far aumentare la spesa pubblica. E poi voglio assicurare che nessuno vuol fare dell’avventurismo, si parte gradualmente. La legge, inoltre, consente correzioni: i cittadini- contribuenti stiano tranquilli che nessuno il 1° gennaio 2011 si troverà alle prese con un raddoppio delle imposte!».
Si parte, intanto, con il federalismo demaniale. Come funziona?
«Si trasferiscono agli enti locali immobili non funzionali al governo centrale. Possono venderli, e utilizzeranno i proventi per abbattere il loro debito e, pro quota, anche quello dello Stato. Così si innesca un circolo virtuoso».
Ma, fra il trasferimento e l’eventuale vendita passa del tempo, e intanto la Regione o il Comune deve mantenere la proprietà, e costa.
«Se lei eredita una casa, non è contento di mantenerla per poi venderla al meglio? È un accrescimento patrimoniale. Inoltre le spese di mantenimento non vengono conteggiate ai fini del patto di stabilità interno. E poi, se l’ente locale riduce il debito, può successivamente ridurre le tasse».
I tempi sono brevi: il federalismo demaniale dovrebbe essere approvato il 21 maggio dalla Bicamerale di attuazione del federalismo, e poi dal Consiglio dei ministri.
«Nessuno pensi che il 1° giugno abbiamo il federalismo demaniale a regime. Sarà necessario fare una ricognizione dei beni che possono essere valorizzati, e poi decidere dei "pacchetti" equi per ogni ente locale. Non è che un Comune può dire: prendo questo perché vale molto, ma quest’altro non lo voglio perché non vale nulla... ».
C’è chi dice, ad esempio l’economista Paolo Leon, che trasferendo le proprietà, lo Stato affievolisce la garanzia sul debito pubblico.
«L’Europa non ragiona in termini di Stato centrale, ma in termini di Pubblica amministrazione complessiva. Infatti si parla di indebitamento e di fabbisogno della Pubblica amministrazione. Il trasferimento dei valori all’interno dello stesso aggregato non cambia nulla sotto il profilo della garanzia. E poi anche se vendo il bene, incasso una somma che andrà a ridurre il debito. Meno debito, meno interessi da pagare, più spazio di manovra fiscale per lo sviluppo».
E se qualche Regione o Comune fosse tentato di utilizzare i proventi per spesa corrente, e poi aumentasse le imposte?
«L’articolo 120 della Costituzione dà al governo un potere di controllo sull’economia. In quel caso, il governo può attivare una serie di strumenti, anche ricorrendo alla Corte costituzionale».
È davvero il caso, comunque, di fare esperimenti fiscali proprio in un momento come questo, con i mercati che tengono i Paesi europei sotto il mirino?
«È esattamente il contrario: la riqualificazione e la riduzione della spesa pubblica è tutto quello che si può fare in questa prospettiva. È una riforma strutturale, ed è sinergica con gli obiettivi europei».
Qualcuno dice che queste sono belle parole, ma nei fatti il federalismo fiscale è defunto: se ne parla, ma non si fa, e i tempi si allungano...
«Il federalismo fiscale c’è, e va avanti. Non basta schioccare le dita per rivoluzionare gli ultimi cent’anni di storia italiana. La legge fissa principi generali che dovranno servire a risolvere il problema dei problemi: il debito pubblico. Mi spiego: dopo gli anni Settanta, il consenso politico è stato comprato con la spesa pubblica perché il proporzionale non attribuiva responsabilità a nessuno.

Cambiata la legge elettorale, ora il federalismo fiscale si riappropria del principio della responsabilità. Alcune decisioni saranno prese dallo Stato, altre dalle Regioni, altre ancora dai Comuni: e il cittadino-contribuente darà il suo giudizio. Chi amministra male non sarà rieletto».

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