Ecco perché dico no alla ricerca sulle staminali embrionali

OBIETTIVO Sosteniamo studi che trasferiscano rapidamente i loro risultati sul piano clinico

Una conferenza stampa con i radicali, numerosi comunicati ripresi da vari quotidiani, tre articoli sul Corriere della Sera, un articolo sulla Stampa, un paio su Nature, uno su Science: questa è la notevole potenza di fuoco mediatica che è stata dispiegata da tre studiose contro un bando di ricerca emanato dal ministero della Salute, Lavoro e Politiche sociali sulle cellule staminali.
Il bando, come sempre, destina i finanziamenti a un particolare tipo di ricerca, escludendone altri: questo è il compito istituzionale del ministero, che, sentiti gli esperti, deve stabilire le priorità in base a criteri di utilità, urgenza, ragionevoli aspettative di successo di una ricerca, e così via.
Perché escludere le embrionali? Mi piacerebbe entrare nel merito, e indagare i motivi per cui tanti scienziati ritengono si tratti di una ricerca ormai invecchiata, che non ha dato i frutti sperati, e su cui si sono concentrati già troppi investimenti, ma non rientra nei miei compiti: sarebbe meglio chiedere a Ian Wilmut, colui che clonò la famosa pecora Dolly, perché abbia abbandonato quel filone di ricerca, o ricordare la più gigantesca truffa scientifica della storia, di cui fu protagonista il coreano Hwang, che pubblicò, proprio su Science, uno studio (rivelatosi poi un clamoroso imbroglio, assai imbarazzante per la rivista) in cui sosteneva di essere riuscito a ottenere cellule staminali embrionali attraverso la clonazione terapeutica.
Il ministero, però, non ha fatto valutazioni di questo tipo, e anzi aveva formulato un’ipotesi iniziale più ampia per il bando.
Ma le Regioni hanno preferito indirizzare con maggiore precisione i limitati fondi disponibili, considerando anche che quella sulle embrionali è ricerca di base, che spetta ad altre istituzioni finanziare, mentre il compito di chi si occupa della salute degli italiani è sostenere la cosiddetta ricerca traslazionale, cioè quella che produce risultati rapidamente trasferibili sul piano clinico.
Le tre ricercatrici hanno fatto ricorso al Tar e hanno perso, ma il giudizio della magistratura ha prodotto soltanto un nuovo editoriale sul Corriere, in cui si scomoda Galileo e la libertà di ricerca.
E veniamo al punto: non si può confondere la libertà di ricerca con il presunto dovere delle istituzioni di finanziare ogni tipo di studi. Non c’è Paese al mondo dove esista questa sovrapposizione, e dove i fondi siano stanziati in modo indiscriminato, senza una selezione e senza un governo; non è così negli Usa, dove Obama ha legato il finanziamento per gli studi sulle cellule embrionali al rispetto di precisi criteri etici.
Nel caso vincesse questa linea il ministero non potrebbe nemmeno emanare bandi tematici, ma soltanto fare generiche assegnazioni di fondi da lasciare gestire agli enti di ricerca: eppure se c’è un errore che viene universalmente rinfacciato al nostro sistema è proprio l’eccesso di finanziamenti a pioggia.
Stabilire le priorità per la ricerca, decidere dove e come indirizzare i fondi pubblici è compito della politica, e la libertà di ricerca non è minimamente in discussione.
Le studiose che hanno fatto ricorso sono perfettamente libere di operare, e di dimostrare che il loro lavoro (peraltro già finanziato dall'Europa) raggiunge buoni risultati. Tutto questo sembra ovvio ed evidente, e non posso credere che Nature o Science, riviste che conoscono le regole e le leggi internazionali, non siano in grado di distinguere.


Mi chiedo quindi se si tratta davvero di confusione, o se invece è in gioco la sopravvivenza di una lobby precisa, una lobby che nell’ambito della ricerca aveva guadagnato, negli ultimi anni, una posizione di dominio che oggi vede a rischio, e che vuole difendere a tutti i costi.
*Sottosegretario al Welfare

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