Ecco perché mi disgusta il coro anti-Bush

Dopo l'11 settembre ha vissuto tempi difficili e nuovi, ma ha combattuto il terrore senza essere sconfitto

Ecco perché mi disgusta il coro anti-Bush

Dando il benvenuto a Obama, certi delle sue qualità e della bella novità che l’America abbia un presidente nero, mi si permetta di essere un po’ disgustata delle bordate di facilonerie con cui viene accompagnato l’exit di George W. Bush. Il presidente uscente si becca la stupida scarpa del giornalista iracheno e tutti sono contenti, ma si allontana dalla scena mentre porta con sé i buoni risultati del “surge” del generale Petraeus in Irak, ormai riconosciuti persino dal suo nemico New York Times; biasimato soprattutto per la guerra in Irak, incamera un patto di reciproco aiuto strategico fra gli Washington e Bagdad. L’Afghanistan e il Pakistan atomico sono stati bloccati sulla via dell’integralismo. Uno dei peggiori dittatori della storia è stato sconfitto, i profughi iracheni sono tornati a casa, i sunniti si sono rivoltati contro la sunnita Al Qaida, gli sciiti si sono staccati nella maggior parte dall’Iran, la democrazia fa capolino nelle comunicazioni, nelle scuole, nell’economia, nelle istituzioni, negli accordi… È dura, errori ci sono stati, ma dov’è la sconfitta? Il terrore è stato lontano dall’America per sette anni, la crescita certo non imputabile, e invece imputata a Bush dell’offensiva islamista non ha impedito buoni rapporti americani con tutto il fronte musulmano moderato. Se anzi si può addebitare a Bush un errore, è quello di non aver combattuto il terrorismo in Irak con più forze militari e di non aver chiuso il confine con la Siria.
Obama ha invitato a unirsi a lui il ministro della Difesa Bob Gates, il ministro del Tesoro Timothy Geitner e molti altri uomini della gestione che finisce oggi. Ha mandato a Bagdad il suo vice John Biden, che a suo tempo aveva votato sì alla guerra (come ha fatto anche Obama nel 2004) e ora l’orientamento per lo sgombero non è per i sei mesi, ma per i tre anni; di Guantanamo per ora non si sa; e Obama ha invitato per una conversazione «molto utile» il cattivissimo Dick Cheney: sul terrorismo ha accettato il suo consiglio, ha detto, di non decidere nulla senza avere in mano tutti gli elementi.
Bush è inviso semplicemente perché ha proposto agli europei l’ineluttabilità della guerra al terrore, di cui l’Europa non vuole sentire parlare. Bush non è mai stato, come si dice oggi, né il paladino della guerra fra civiltà né quello dell’unilateralismo. Nessuna mala parola sull’Islam è mai uscita dalla sua bocca. Egli si è piuttosto servito di una categoria storica e non ideologica, quella della dittatura e del totalitarismo che alimentano il terrorismo per propri interessi: per questo, oltre che naturalmente per difendere il proprio Paese dopo l’attacco dell’11 settembre, ha promosso l’idea della democratizzazione come antidoto al terrore, e non certo quella della conquista ideologica cristiana. Se si rileggono i discorsi di Bush si vede che la sua dottrina democratica è un tentativo in parte riuscito di fermare il terrorismo.
Le armi di distruzione di massa sono un altro argomento preferito per farsi una risatina: ma i rapporti degli ispettori dell’Onu dagli anni ’90 le descrivono minutamente, Saddam stesso se ne era vantato, Clinton le dava per scontate. C’è parecchio materiale sull’argomento, chi ha voglia di sghignazzare deve cominciare dai rapporti dell’Onu.
Quanto all’unilateralismo, Bush andò alla guerra con 46 Stati, e lavorò ventre a terra per ottenere la solidarietà dell’Europa, che era e restò divisa. Disse più volte che da soli al mondo non si può fare niente di buono.

La sua espressione «moral clarity» è divenuta un modo di dire, e di questo non si può che dirgli grazie. Ha vissuto un tempo difficile e nuovo, e ha combattuto. Anche Obama, mentre incrocia le dita sperando di non dovere affrontare simili prove, certo lo sa.

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