di Denis Verdini
coordinatore nazionale Pdl
Appena uscito dall’ospedale, il presidente Berlusconi ha rilasciato una dichiarazione molto saggia e improntata a un cauto ottimismo sul futuro politico del Paese: «In questi giorni - ha detto - ho sentito vicini anche alcuni leader dell’opposizione. Se sapranno davvero prendere le distanze in modo onesto dai pochi fomentatori di violenza, allora potrà aprirsi una nuova stagione di dialogo». La risposta, indirettamente, gli è subito arrivata dall’eminenza grigia, anzi rossa, della sinistra italiana, cioè D’Alema, che in un’intervista ha messo Berlusconi sullo stesso piano di Di Pietro, definendoli due populisti speculari che si alimentano a vicenda. Un’affermazione subdola e anche senza senso, perché sarebbe come paragonare un costruttore di automobili a uno sfasciacarrozze. Intanto D’Alema e il Pd, se sono davvero convinti di questo, dovrebbero trarne una prima e inevitabile conseguenza: rompere immediatamente l’alleanza con l´ex pubblico ministero che è un miscuglio di estremismo giacobino e di qualunquismo da quattro soldi.
L’isolamento di Di Pietro, uno sfascista che non esita a evocare la violenza politica, sarebbe il primo vero passo avanti per far diventare l’Italia un Paese normale. Lo hanno fatto in Francia con Le Pen, che aveva molti più voti, e sarebbe utile farlo anche con lui, non perché io sia un nostalgico degli archi costituzionali, ma perché fino a quando il Pd terrà al suo fianco Di Pietro i pozzi della politica resteranno avvelenati. L’impostazione di D’Alema è dunque utilitaristica - perché tende a sollevare il suo partito da ogni tipo di responsabilità - e allo stesso tempo fuorviante, perché il Pdl non è un partito populista. È semplicemente un partito con una forte leadership, e - come sostiene Panebianco - tramontata l’era dei partiti ideologici, è solo la leadership che può ridare forza alla politica.
Un partito moderno ha due doveri primari: sostenere il suo leader e rispettare gli impegni assunti con gli elettori. Punto. Spetta ai suoi uomini nelle istituzioni portare poi avanti le necessarie mediazioni. In questo senso, mi appaiono poco comprensibili (o anche troppo comprensibili) sia le fibrillazioni di questi mesi dentro il Pdl, sia la surrettizia divisione che viene fatta tra falchi e colombe. Ma quali falchi e quali colombe? Se si prende come punto di riferimento il programma di governo, ci si accorge che questa è una distinzione fasulla, e non è vero che chi è impegnato a portarlo avanti è un falco e chi lavora per destrutturarlo è una colomba. Faccio qualche esempio. Dire che la Costituzione è stata concepita in un’epoca ormai arcaica e che va riformata è un peccato mortale o un diritto della maggioranza di governo? Dire che la Corte Costituzionale è formata in un certo modo che ha portato a squilibrarla a sinistra è un attacco alle istituzioni o la semplice descrizione della realtà? Sostenere che la storia repubblicana, dal ’92 a oggi, ha portato all’elezione di presidenti della Repubblica tutti espressione di un solo schieramento, e che per lunghi anni non hanno rappresentato la maggioranza del popolo che vota è vilipendio del Capo dello Stato o, ancora, la sacrosanta verità? Aggiungendo - e lo aggiungo con convinzione - che Napolitano è uno dei migliori presidenti che l’Italia ha avuto (il Pci, se ricordo bene, non ha mai avuto paura di mettere sotto accusa per quarant’anni i Capi dello Stato, fino a demonizzarli com’è successo a Segni, a Leone e a Cossiga. O no?).
E affermare che la volontà popolare è la base fondante della democrazia, e che la Costituzione materiale della seconda Repubblica ha inserito nel nostro ordinamento un’elezione di fatto del premier che gli conferisce non solo il diritto di governare, ma un surplus di legittimazione rispetto ai presidenti del consiglio della prima Repubblica, è un attentato alla Costituzione? Oppure: essere convinti e operare per una semplificazione del quadro politico che porti al bipartitismo è un’opzione legittima o una tentazione autoritaria? E soprattutto: mettere in chiaro che un ordine dello Stato, quello giudiziario, da Tangentopoli in poi, ha pesantemente condizionato la vita dei governi, di destra e di sinistra, diventando il dominus della vita politica e degli equilibri istituzionali è un’esagerazione o una verità che tutti hanno sotto gli occhi?
Potrei continuare all’infinito ma preferisco fermarmi qui. Io sostengo convintamente che un partito ha il diritto e il dovere di raccogliere l’impulso che gli viene dal suo elettorato e di lavorare conseguentemente per il cambiamento - che gli è stato richiesto - della politica e delle istituzioni. Tutti riconoscono, anche se molti a denti stretti, che la discesa in campo di Berlusconi è stata rivoluzionaria perché ha profondamente trasformato il sistema politico, introducendo l’alternanza di governo e imponendo la prevalenza delle leadership sulla vecchia partitocrazia, cosa che ha come corollario l’ammodernamento delle istituzioni. Ma quando il centrodestra propone di rafforzare i poteri del premier, da sinistra e non solo si agita subito lo spettro del nuovo Mussolini. Tanto che un politologo di FareFuturo è arrivato a sentenziare che «il problema» italiano è Berlusconi. Io ritengo invece, e con me - fortunatamente - la maggioranza dei cittadini, che il vero problema è un altro: è consentire al governo in carica di portare avanti il programma concordato e giudicarlo alla fine della legislatura.
Il Pdl, dopo l’aggressione al premier, ha chiesto ai moderati del centrosinistra di fare un passo avanti e di affrancarsi dall’ipoteca giustizialista. Ma da Bersani, dopo il positivo segnale della visita a Berlusconi in ospedale, sono purtroppo giunte le risposte contraddittorie di sempre, perché il Pd forse ha la voglia, ma non l’interesse, di chiudere i rapporti con l’Italia dei Valori, alleato indispensabile per le regionali di marzo. E infatti l’atteggiamento al Senato sul processo breve non è cambiato nemmeno di un millimetro.
La differenza fra noi e loro è di tutta evidenza: noi riteniamo che il presidente del consiglio non sia Al Capone e continui a subire una persecuzione giudiziaria senza precedenti. Per loro, invece, in Italia non ci sono perseguitati. Su queste basi, mi chiedo, come sarà possibile fare le riforme insieme? Le belle parole nobilitano chi le pronuncia, ma l’ipocrisia non serve a nulla. La verità è che il nodo giustizia è cruciale e si allunga ancora come un’ombra nefasta sulla legislatura, e in questo senso le previsioni per il 2010 non possono essere ottimistiche. Non credo di essere un falco se dico che il premier va messo in grado di governare tutelandolo dall’ordalia delle procure politicizzate, e che la volontà popolare va protetta insieme a lui.
Se per questo mi prendo del falco, del fascista, del mafioso e del golpista, non faccio una piega. Anzi, ne sono fiero.
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