Il cerchio si chiude: anni fa, con una discreta dose di presunzione peraltro priva di malizia, la squadre campioni Nba si autodefinivano campioni del mondo, ché era assurdo, per loro, anche solo ipotizzare che qualcun altro in giro per il pianeta potesse essere alla loro altezza. Poi sono venute prove incerte nei vari tornei McDonald's, qualche brutta figura a Mondiali e Giochi Olimpici, l'influsso sempre maggiore di giocatori stranieri - anche se ora c'è stata una frenata - e lo scorso anno addirittura la novità di due giocatori europei, Dirk Nowitzki e Tony Parker, quest'ultimo peraltro franco-belga di padre statunitense, premiati rispettivamente come miglior giocatore della regular season e dei playoff.
Ad eccezione di alcuni campioni che orgogliosamente hanno deciso che la loro carriera poteva considerarsi ricca anche senza una militanza nella lega più famosa del mondo, negli anni passati tutti i migliori giocatori hanno deciso di mettersi alla prova nella Nba, rendendola così sempre più internazionale, specialmente nelle squadre di vertice, e per paradosso legittimando nuovamente, con qualche forzatura, l'appellativo di campioni del mondo originariamente appiccicato con eccessiva fretta. Quattro dei sei migliori giocatori dei San Antonio Spurs campioni sono nati e cresciuti all'estero, e nei playoff che iniziano sabato potrebbero esserci 37 giocatori stranieri sul totale di 192 dei roster da dodici uomini (in realtà espandibile a 15) delle 16 partecipanti, dunque il 19%.
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