Parlare di rientro dei capitali all’estero è oggettivamente difficile. Per chi ha sempre pagato tutto all’ultimo centesimo è ovvio che risulti poco appassionante un dibattito se sia meglio un’aliquota del 5% o del 2%, il primo pensiero è che chi ha evaso deve pagare e basta, nessuna pietà.
Il fatto è che in tema fiscale occorre un minimo di pragmatismo, altrimenti si corre il rischio di rientrare nell’ottica, in apparenza ineccepibile ma in realtà utopistica, di quelli che vorrebbero applicare un limitatore di velocità fissato a 130 km/h a tutte le vetture, dalla Cinquecento alla Ferrari perché «tanto i limiti sono quelli». La rete di protezione alla fuga dei capitali è sempre stata a maglie talmente larghe che, chi poteva approfittarne, era pressoché certo dell’impunità. Non si pensi a un fenomeno unicamente italiano, tutti i paesi occidentali hanno sperimentato il fenomeno dell’esportazione del denaro: sembra un paradosso ma persino la Svizzera sta studiando la fattibilità di una misura analoga allo scudo fiscale, per recuperare le attività dei cittadini svizzeri illegalmente esportate all’estero. Il punto fondamentale per capire l’accettabilità o no di un provvedimento di rientro capitali non è il livello dell’aliquota, né tantomeno l’utilizzo delle somme ottenute: un semplice condono per fare cassa (come ne abbiamo purtroppo visti numerosi in passato) alla lunga costa più di quello che rende perché ingenera un incentivo a ulteriori comportamenti irregolari; per essere efficace e condivisibile una misura come lo scudo fiscale deve includere forti elementi di discontinuità con il passato. In buona sostanza non basta dire «pagate tot per condonare», la frase corretta dev’essere: «Pagate tot per regolarizzare anche le cose dubbie perché da adesso in poi scatta la pena capitale». Ebbene, questa volta una discontinuità forte c’è: i detentori di attività all’estero si stanno rendendo ben conto che la morsa internazionale in via di completamento non è mai stata così seria, la crisi ha affievolito molte delle spinte all’indulgenza e qualcosa è davvero cambiato. Innanzitutto risulta fondamentale la decisione di considerare, salvo prova contraria, il denaro trovato in un paradiso fiscale come derivante da evasione: ciò significa che tutto quello che deve fare la finanza è pescare una somma all’estero e poi spetterà al proprietario dimostrarne la provenienza lecita (se ci riesce). Si tratta di un cambiamento radicale, dato che prima l’evasione doveva essere provata, con tutte le lentezze e le prescrizioni del caso. In secondo luogo stavolta occorrerà il rientro fisico dei denari, non la semplice dichiarazione, con prevedibili benefici per l’economia in generale.
A ciò vanno aggiunti degli strumenti sempre più efficaci di incrocio informatico delle diverse banche dati a disposizione dell’Agenzia delle entrate e delle proposte di sanzioni che sono state fissate a un livello così alto da essere considerate «terroristiche» dagli addetti ai lavori. Presupposto necessario è inoltre il clima (pur con tutte le resistenze del caso) assai più collaborativo fra i diversi Stati al fine di arrivare a scambi di dati sempre più intensi.
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