Gian Marco Chiocci - Simone Di Meo
I conti non tornano, l’estorsione non c’è. Più che un’indagine l’inchiesta napoletana sui presunti ricatti ai danni del premier sembra una trappola. Basta leggere le carte di quest’indagine-lampo (le intercettazioni utili sono concentrate nelle prime due settimane di luglio, gli arresti sono del primo settembre) per accorgersi che non solo i pm vesuviani non hanno alcuna competenza a indagare e, dunque, nemmeno a interrogare il presidente del Consiglio, ma anche che le prove sul patto criminale ai danni di Berlusconi sono tutt’altro che granitiche.
Napoli, caput mundi. Il gip di Napoli, Amelia Primavera, a pagina 2 dell’ordinanza d’arresto per i coniugi Tarantini e per Valter Lavitola, scrive che la consegna del denaro destinato a Gianpi e signora avviene presso il «domicilio romano di Silvio Berlusconi, Palazzo Grazioli in via del Plebiscito a Roma». Per i pm è Marinella Brambilla, storica collaboratrice del premier, a occuparsi delle «dazioni», come dimostra l’intercettazione 219 del 23 giugno, quando Lavitola dice al suo autista: «Senti vai rapidamente dove sei andato l’altra volta… devi prendere, sono dieci fotografie che ti deve dare». Le «fotografie» sono, appunto, le buste di denaro, come ha confermato la stessa Marinella ai pm che l’hanno interrogata qualche giorno fa. A pagina 78, però, improvvisamente, il gip, affrontando il tema della competenza territoriale si smentisce e annota che non è più possibile individuare «il luogo preciso in cui i diversi passaggi della illustrata “catena di montaggio criminosa” hanno inizio e fine». E, quindi, decide che a indagare debba essere proprio la procura di Napoli, ossia l’ufficio giudiziario della città in cui nessuno dei personaggi coinvolti nella vicenda passa manco per sbaglio (Tarantini e la moglie abitano a Roma, Lavitola è all’estero - tra Bulgaria, Brasile e Panama - o a Roma, e Berlusconi sta tra Palazzo Chigi e a Milano).
Ma non è tutto: il famoso incontro per chiedere il prestito da 500mila euro a Berlusconi, a cui partecipano Lavitola e i Tarantini, avviene ad Arcore (Monza), nel marzo del 2011, quindi ben prima che fossero attivate le intercettazioni (successive di due mesi) e ben prima che i pm sospettassero qualsiasi forma di estorsione ai danni del premier. E, soprattutto, ben prima che si profilasse all’orizzonte la possibile conclusione delle indagini pugliesi, con il conseguente deposito di intercettazioni telefoniche compromettenti, che rappresenterebbero - appunto - l’arma di ricatto nei confronti del premier.
In linea con il presidente. Tutta l’inchiesta napoletana si basa infatti sulla convinzione investigativa che Tarantini e Lavitola tengano «sotto scacco» Berlusconi, estorcendogli denaro e altri benefit, in cambio del patteggiamento nell’inchiesta sulle escort a Bari. Inchiesta in cui, è bene sottolinearlo, Tarantini è coinvolto con un’altra dozzina di indagati, e sulla quale non calerebbe certo il velo del silenzio mediatico se il solo Gianpi scegliesse un rito alternativo al processo. Peraltro, a ben guardare, nemmeno nella famosa telefonata intercettata tra Berlusconi e Lavitola si parla di patteggiamento o di modifica di strategie processuali; l’editore dell’Avanti! si lascia andare a gossip giudiziario sul procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, senza sortire alcun effetto nel premier, che anzi lo fulmina: «Si, si, si, vabbe’...ma insomma ...questo ...tutto per aria ...va bene, poi?». E anche la moglie di Tarantini, Angela detta Nicla, nel corso dell’interrogatorio, sfida i magistrati: «Trovate un’intercettazione telefonica di queste in cui io o Gianpaolo diciamo: “Se non mi dai 500mila euro, io lo rovino”, non ce n’è una». Eppure, in galera c’è finita comunque, nonostante le spettassero i domiciliari (come poi è stato deciso, dopo il ripensamento del giudice) perché mamma di una bimba piccola.
Il raggiro di Lavitola. Da dove salta fuori, allora, questo mezzo milione di euro? È Tarantini a chiedere la somma a Berlusconi - per il tramite di Lavitola, che quantifica la richiesta nel corso della visita di marzo scorso ad Arcore - per avviare un’attività imprenditoriale, probabilmente all’estero. Soldi, assicura Gianpi, da restituire. Un prestito, quindi. E non una tangente. Tant’è che, leggendo con attenzione le intercettazioni tra i due, sembra vacillare anche la tesi dei magistrati a proposito della consegna a Gianpi di una parte della presunta somma illecita, pari a 100mila euro. La Digos, infatti, il 14 luglio, intercetta una conversazione tra Lavitola e un suo collaboratore in cui l’editore afferma di aver ritirato «da quello là» (Berlusconi) i soldi per girarne un po’ «a quelli là». Per i pm, questi ultimi sarebbero i Tarantini. Tre giorni dopo, però, messo alle strette da Gianpi che vuole sapere che fine ha fatto il prestito del Cav, Lavitola risponde: «Si, 500 stanno sopra un conto… questi soldi stanno da una settimana dopo che siamo andati a casa sua». Lavitola nella conversazione parla dell’intera somma, non di quella decurtata dalla parziale erogazione ai Tarantini. Cinquecento e non 400, insomma. La truffa di Lavitola è servita, e questo lo sanno anche i pm.
Interrogatori a catena. Non c’è nulla, come abbiamo visto, che possa portare anche soltanto alla lontana a incardinare la competenza a Napoli. Eppure, i sostituti procuratori continuano a indagare: domani sarà ascoltato nuovamente Tarantini, ma non si sa su che cosa. Giovedì scorso, intanto, è stato sentito a proposito dei rapporti suoi e di Lavitola su Finmeccanica, tutt’altro filone anche questo rispetto alla storia della presunta estorsione su cui Napoli dovrebbe indagare. È una mucca da mungere, Gianpi. Una mucca chiusa in una stalla.
E, prima o poi, arriverà pure il turno di Silvio Berlusconi. L’incontro di martedì con i pm partenopei al gran completo - già fissato - è saltato a causa degli impegni del premier, ma non potrà accadere di nuovo. I magistrati napoletani lo attendono al varco di Palazzo Chigi con un bel po’ di domande da fargli. E il Cavaliere dovrà rispondere, tra l’altro senza l’assistenza di un avvocato, perché in questo procedimento è testimone e parte lesa. Confermerà anche lui che i soldi sono stati consegnati a Roma, sradicando così definitivamente la competenza da Napoli, ma è chiaro che il prestito a Tarantini non interesserà granché all’accusa. C’è ben altro sul piatto: l’ipotesi di violazione della normativa anti-riciclaggio e quella di subornazione di testimone.
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