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Ecco la riforma che sfida i baroni

Il ddl sull’università è il primo passo avanti per cambiare un sistema considerato intoccabile. E individua le strade per risolverne i problemi principali

Ecco la riforma che sfida i baroni

Il nostro sistema universitario è talmente incasinato - per usare un termine studentesco - che sarebbe miracoloso metterlo in ordine con un’unica riforma. Sarebbe come buttare sul tavolo le asticelle dello shanghai e sperare che cadano tutte belle allineate. Dunque, il progetto di riforma del ministro Gelmini approvato ieri dal governo non sarà il toccasana che renderà di colpo perfetto il sistema universitario italiano. Ma è, sulla carta, un bel passo avanti, soprattutto se l’iter parlamentare della legge non lo svilirà in mille compromessi ma contribuirà a migliorarlo, senza tenere conto di interessi locali e corporativi.

Prima di esaminare a grandi linee i passaggi fondamentali della riforma (altri lo faranno meglio di me) può essere utile il ricordo delle mie esperienze personali nel mondo universitario: se il lettore mi darà la fiducia necessaria per credere che sarei stato (e sono) un buon insegnante.

Sulla mia esperienza di studente sorvolo. Si era alla fine degli anni Sessanta, anni sessantottini di fuoco, ma chi voleva poteva studiare davvero e bene, specialmente in un’università privata come la Cattolica di Milano, che scelsi proprio per questo motivo. A prima e principale giustificazione degli studenti di oggi si può dire che è molto più difficile individuare un ateneo dove - anche volendo - si possa studiare bene. Con i disastri che ne conseguono per la società italiana.

Mi laureai con il massimo dei voti e con una tesi (su Giuseppe Bottai) che di lì a poco sarebbe diventata - la modestia in questi casi è dannosa - uno dei libri più importanti nella svolta che avrebbero preso gli studi sul fascismo: un libro ancora oggi ristampato, letto, studiato. Avevo abbastanza meriti, insomma, per avere presto - se non subito - una docenza. Invece il sistema era tale che avrei dovuto fare per anni il portaborse, prima di sedermi a una cattedra. E «portaborse» non era un modo di dire, in presenza di un baronato universitario che pretendeva una specie di ascesa del Golgota, prima di riconoscerti qualche merito. Poiché i bravi sono spesso impazienti - per fortuna loro e collettiva - mollai subito, dedicandomi all’editoria e alla stesura di altri saggi. Che hanno arricchito la storiografia ma non le migliaia e migliaia di studenti che avrei potuto formare: perché avrei preferito fare proprio quello.

Dopo più di tre lustri, dunque alla fine degli anni Ottanta, confortato da alcune eccellenti esperienze che avevo avuto in università straniere (persino nel «terzo mondo» brasiliano) esaminai la possibilità di accedere a un’università. Ci volle pochissimo a capire che, nonostante i molti studi pubblicati - e tradotti in numerose lingue - per il mondo accademico ero un estraneo, se non un fastidioso competitore. E che, dunque, avrei dovuto sottopormi alla sudditanza di baroni e baronati ostili per avere non dico una cattedra, ma un predellino. E sapendo che, da quel predellino, avrei avuto a che fare con una burocrazia assurda, con sistemi di potere ripugnanti, con deficit strutturali e organizzativi, con stipendi inadeguati. Rinunciai ancora, e ancora non fui io a subire il danno maggiore di questa rinuncia. Oggi insegno grazie alla riforma Moratti, che ha creato gli atenei telematici, università private che hanno la possibilità di scegliersi i docenti e che risolvono il problema dell’affollamento studentesco (uno dei più gravi) con l’insegnamento a distanza. Ancora una volta, è vero, devo rinunciare alle università più grandi e celebrate - si fa per dire - ma almeno non partecipo a un sistema malato, dove il merito conta nulla o quasi, sia per chi insegna sia per chi studia.

La riforma Gelmini individua e percorre alcune buone strade per risolvere i problemi principali. Le università avranno maggiore autonomia finanziaria, scientifica, didattica; ma dovranno rispondere dei risultati: se questi non saranno buoni, avranno meno finanziamenti. Lo stesso accadrà con i docenti e con i relativi stipendi, vivaddio. I giovani ricercatori verranno reclutati in modo più selettivo, meno umiliante e servile. Dovrebbe essere il trionfo del mercato e del merito, insomma.

Nella stessa direzione va la scelta di abolire i rettori «a vita», con un limite massimo di otto anni, come quelle di commissariare gli atenei in dissesto, di distinguere fra le funzioni del Senato accademico e del Consiglio di amministrazione. Anche il fatto che gli studenti possano «dare un voto» ai professori, misura apparentemente populista e sessantottarda, è giusto: si dovrebbe riuscire in questo modo - e con l’obbligo della certificazione di presenza - a evitare casi di docenti che non si presentano quasi mai a lezione o agli incontri con gli studenti, continuando a prendere lo stipendio come se lavorassero. È ottimo, ovviamente, il principio di aumentare gli aiuti agli studenti migliori, con borse di merito e prestiti d’onore.

La riforma non è risolutiva, urge per esempio affrontare la questione del valore legale della laurea: ma per il momento forse sarebbe chiedere troppo.

Rallegriamoci dunque, un primo passo è stato fatto.

Auguri a tutti: agli studenti, ai professori e all’intero popolo italiano, il cui destino dipende - più di quanto non si consideri - proprio dalle nostre scuole e dalle nostre università.

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