Controcultura

Ecco gli scheletri nascosti nella nostra lunga storia

In un saggio segreti e curiosità sulle ossa, la struttura fondamentale (ma spesso ignorata) dell'esistenza

Ecco gli scheletri nascosti nella nostra lunga storia

Magari non a tutti capita, come a Brian Switek, di starsene fermi, al riparo da una pioggia torrenziale nel deserto dello Utah, e pensare alle proprie ossa. A come sembreremmo ai raggi X, spogliati non solo dei vestiti, ma anche della pelle e dei muscoli. Niente carne, solo scheletro. E pensare anche, già che ci siamo, a che fine potremmo fare, o meglio: a che cosa potrebbe sopravvivere di noi, cioè di quelle ossa, fra qualche migliaio di anni e, quindi, di cercare il luogo più adatto per trasformarsi in fossili quasi perfetti, di quelli che danno un bel lavoro e una bella soddisfazione ai paleontologi...

Ecco, Brian Switek è, per l'appunto, un appassionato di paleontologia fin da bambino, ama scavare e, soprattutto, scrivere di chi scava per staccare quei preziosi fossili da cave, letti e rocce e, per inciso, ritiene che il posto migliore per conservarsi in forma di reperto naturale sia la laguna sommersa di Solnhofen, in Germania. A Switek capita di incontrare degli osteologi - gli esperti di ossa - che lo riconoscono di spalle dalla forma del cranio, e gli capita anche di usare espressioni molto «del settore», come «ridurre tutto all'osso», vale a dire cercare l'essenziale. E l'essenziale, nel suo caso, è l'osso stesso. L'osso è ciò che sta al di sotto della superficie, ed è appunto su questa nostra natura, solitamente ignorata (un po' proprio per ignoranza della materia, un po' per paura, un po' per superstizione) che Switek si concentra, sia nei momenti di solitudine, sia nel suo saggio più recente, in cui racconta la «Vita segreta delle ossa»: e, trattandosi di segreti da svelare, il libro non poteva che chiamarsi Lo scheletro nell'armadio (il Saggiatore, pagg. 292, euro 26).

La tesi che sostiene l'intera ossatura è semplice (ma complessa nelle conseguenze): «Dal più ampio punto di vista dei reperti fossili, in noi non c'è nulla di inatteso o sbalorditivo. Siamo una variazione sul tema, una nuova combinazione di caratteristiche che ci fanno spiccare ma anche, soprattutto, che ci rendono parte di una narrazione più lunga di quanto ciascuno di noi abbia mai speranza di capire davvero e fino in fondo». Nei nostri scheletri - composti di circa 206 pezzi ciascuno, ma il numero può variare - è incisa la storia dell'evoluzione: neanche un ossicino è arrivato dal nulla, bensì è il prodotto di trasformazioni e assemblaggi e casualità spesso inspiegabili, le quali, alla fine, hanno portato all'Homo sapiens sapiens; ma, giusto per non montarci la testa, anzi il teschio, è meglio ricordarci che «siamo, a livello scheletrico, scimmie arboricole leggermente modificate», al fine di camminare sempre su due piedi.

La parola chiave è «transizione»: in questo caso, cioè il passaggio dai rami alla terraferma, la testimonianza più celebre è Lucy, che ci ricorda, con le sue ossa, che lei e gli ominidi che vissero oltre 3 milioni di anni fa «non erano affatto diversi da noi», poiché «avevano una colonna vertebrale, fianchi, gambe e piedi adatti a camminare in posizione eretta, sebbene conservassero ancora le spalle flessibili, le lunghe braccia e le mani in qualche modo a uncino» dei loro antenati sugli alberi. Ma, come Lucy, ci sono altri fossili molto più antichi, anche se meno spettacolari e famosi, che provano questa «transizione», non certo indolore perché, nella storia dell'evoluzione della Terra e delle sue creature, quasi nulla è avvenuto senza catastrofi e massacri, come Darwin insegna. Così, Switek ci porta fra le stanze meno visitate dei musei di storia naturale per incontrare il fossile di Pikaia gracilens, un esserino lungo meno di quattro centimetri appartenente alla misteriosa ed esotica era del Cambriano (530 milioni di anni fa) che, quando fu scoperto, fu scambiato per un verme; e invece, all'occhio esperto, la Pikaia rivela una «notocorda», insomma la struttura rigida che si sarebbe poi evoluta nella colonna vertebrale. Tutti, dai neonati agli elefanti, siamo debitori della nostra struttura fondamentale alla minuscola e (apparentemente) molliccia Pikaia. E poi c'è il fossile di Tiktaalik roseae, una specie di pesce primordiale che ci ricorda quel momento cruciale in cui passammo dall'acqua alla terraferma. Non facciamoci illusioni, «siamo ancora quel pesce» e «le differenze che a noi possono sembrare importanti sono in realtà solo perfezionamenti su piccolissima scala».

Le ossa umane restano però, per noi, straordinariamente affascinanti: c'è chi le colleziona (anche al giorno d'oggi, tanto che alcuni siti ne hanno dovuto proibire il commercio on line), c'è chi le venera (le reliquie sono da centinaia di anni fonte di litigi, indagini, frodi e, insieme, un magnete per le folle di fedeli), c'è chi trasforma teschi in coppe per bere il vino e chi, come gli Inca, praticava fori nel cranio con abilità straordinaria. Le ossa ci dicono ciò che abbiamo sofferto, come quelle di Riccardo III, il perfido re che Shakespeare ha reso immortale e del quale gli studiosi hanno ritrovato lo scheletro pochi anni fa in un parcheggio, scoprendo la quantità di ferite e crudeltà inferte al sovrano sconfitto sul campo di Bosworth. E smentendo, anche, che la sua gobba fosse così accentuata. Gli scheletri possono consolarci: perfino i giganteschi dinosauri, che ci avrebbero schiacciato in un istante, soffrivano di artrite. E, sempre studiando le ossa, in questo caso degli orsi bruni, possiamo sperare di andare su Marte: solo da loro potremo imparare come andare in letargo per mesi e poi rimetterci in movimento all'improvviso, senza che le nostre ossa e i nostri muscoli siano ormai atrofizzati. Ma per fare tutto questo, ci ricorda Switek, bisogna guardare all'essenziale.

Cioè all'osso, e all'ossatura, della realtà.

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