Cultura e Spettacoli

Ecco come si nasce. Ce lo racconta Isabella Ferrari

Roma«Ho sposato da subito il progetto, sentendolo come cosa mia. Ed ho accettato di fare la voce narrante per questo documentario intenso e commovente, dopo aver visto il dvd de Le premier cri. E voglio appoggiare questa coraggiosa operazione», dice Isabella Ferrari, che presta il proprio timbro suadente a Il primo respiro, originale docufilm di Gilles de Maistre (dal 13 nelle sale, con 10 copie), l’anno scorso al centro d’un caso cinematografico in Francia, con 140mila spettatori. Raggiunta al telefono, la brava interprete piacentina, classe 1964, non può dilungarsi a commentare le straordinarie immagini, che su scala planetaria ora presentano i diversi modi di venire al mondo. «Mi trovo in ospedale, dove assisto mio padre, che non sta bene», spiega l’attrice, incarnazione della femminilità protettiva non solo sul grande schermo (nel film Un giorno perfetto di Ozpetek, per esempio), ma anche nella vita vera, dove si cura dei figli Teresa, Nina e Giovanni. E siccome la società occidentale è incapace di affrontare la malattia, ma anche di affrontare la gravidanza (viste le foto dell’ex-ministro francese Rachida Dati, tornata al lavoro a cinque giorni dal parto, sorridente sui tacchi a spillo e contestata dalle femministe proprio per quella fretta carrierista), salutiamo con simpatia Il primo respiro, quasi un film d’azione per l’incalzante svariare degli scenari. È un giro del parto in dieci storie, in sostanza, che ha richiesto 3 anni di lavoro, 22 mesi di ricerche e 52 ecografie, eseguite sul posto da medici volanti: non è stato facile, per la troupe, filmare in diretta l’atto fisico che tutti ci affratella. Il primo parto naturale avviene tra i delfini, in Messico: Gaby e Pilar, guidate da un’ostetrica, si muovono tra i mammiferi acquatici, assecondando con naturalezza le contrazioni. Sdraiata su un tatami, a Tokyo, la giapponese Yukiko aspetta con gravità zen il suo bambino, mentre Kokya, partoriente d’una tribù Masai, che non aveva mai visto l’ombra d'una cinepresa, guarda con calma il rituale delle anziane del villaggio, intente a dipingerle il corpo. C’è senso di solitudine, invece, per la brasiliana Majtouré, che in una capanna, nel cuore della foresta amazzonica, partorirà in piedi, al tenue bagliore d'un fuoco di sterpi. Nel deserto del Niger, poi, il bimbo della tuareg Manè si presenta podalico e morirà. «Girare le varie sequenze è stato un inferno», ha confessato il regista, che situa le storie durante un’eclissi solare, «fenomeno magico e terrifico quanto l’atto di dare la vita».
La natività più insistita è quella dell'americana Vanessa, che insieme al compagno Mikael vive in una comune no-global, in un bosco del Maine.

«Le indiane o le africane non erano in grado di commentare ciò che vivevano», afferma a proposito de Maistre, evidenziando così il diverso approccio culturale al primo atto naturale: venire al mondo.

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