Ecco come si scrive un diario sulle note di Tenco

«Quante vite avrei voluto» di Piergiorgio Paterlini in bilico tra ricordi personali e grandi eventi della Storia

Maria Letizia Maffei

Alla serata finale del Festival di Sanremo (26 gennaio 1967) il grande cantautore Luigi Tenco si toglie la vita. Pochi giorni dopo si svolge in Italia il primo concerto dei Rolling Stones, e per la prima volta un giudice italiano riconosce la nuova identità sessuale successivamente ad un’operazione chirurgica. Tutto questo e molto altro nello spettacolo in scena al teatro dell’Orologio. Un omaggio a Tenco dal titolo «Quante vite avrei voluto» di Piergiorgio Paterlini. Un titolo che ci suggerisce la chiave di lettura di questo testo raccontandoci invece un’altra vita, quella di un bambino che quella sera davanti all’evento televisivo aveva solo sette anni.
Gianluca Ferrato presta la sua energia, il suo coraggio e la potenza della sua voce a quel bimbo ormai cresciuto, permettendogli di interpretate i toni dello scoramento, dell’insoddisfazione, di un inesauribile desiderio d’amore infantile diventato ossessione.
Quel bimbo ha una sola certezza: non avrà mai l’amore di una madre troppo occupata e distratta dallo spronare o rimproverare i suoi allievi di pianoforte. E purtroppo lui non è e non sarà mai oggetto delle sue attenzioni perché non possiede il magico dono del linguaggio musicale. Così, mentre i rituali materni si ripetono verso gli «altri», in lui si sviluppa l’incubo, rappresentato da un pianoforte dalla tastiera infinita, sopra e dentro cui scorrono la vita e la morte.
Un pianoforte a coda dalle proporzioni esagerate, calpestabile e mutevole, che campeggia sulla scena; un pianoforte che è strumento musicale, ma anche tomba e nascondiglio e pannello per le proiezioni degli articoli di allora, ma che soprattutto è il simbolo di un obiettivo mancato: il successo.
Ed è nell’intreccio di questa vita a noi sconosciuta con le parole coinvolgenti e semplicemente vere delle canzoni di Tenco che nel nostro profondo si dipana un parallelismo concreto, che cerca spiegazioni su livelli differenti, attraverso linguaggi diversi, passando dalla musica evocativa alla parola dura all’immagine esplicativa, con la regia di Marco Mattolini, che sa alternare momenti vitali ed energici a racconti più intimi che ci danno il senso di sé, di noi, di un mito generazionale.
E se è vero che non c’è una verità più vera di altre e non c’è una motivazione più forte di altre che possa spiegare le scelte che segnano il percorso della nostra esistenza, è altrettanto vero che ci sono sollecitazioni emotive che ci spingono verso una scelta piuttosto che un’altra e che ci uniscono indissolubilmente anche se in destini diversi.

«E lontano, lontano nel tempo, qualche cosa negli occhi di un altro, ti farà ripensare ai miei occhi».
Al piano Marco Savatteri. In scena fino al 16 dicembre al teatro dell’Orologio, Sala Grande, via de’ Filippini, 17.

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