Banche (straniere) d'Italia. I signori del risparmio mondiale stanno silenziosamente accelerando la loro marcia sugli istituti di credito quotati in Piazza Affari. La recente «tripletta» da 3,8 miliardi di BlackRock in Intesa Sanpaolo, Unicredit e Monte dei Paschi è il caso più evidente, ma la presa dei fondi esteri si stringe un po' ovunque, Popolari comprese. A riprova di un mercato più efficiente e di come sia lontano il tempo in cui Bot e Btp erano considerati all'estero poco più che spazzatura.
I fondi possono scorazzare liberamente in Borsa perché la normativa (articolo 19 del Testo unico bancario) prevede che Bankitalia intervenga, con poteri autorizzativi, soltanto nel caso le partecipazioni superino la soglia del 10 per cento. E lo stesso vale per gli schermi della Consob di Giuseppe Vegas, visto che il Testo unico della finanza (articolo 120) sancisce l'obbligo di informare il mercato solo se un pacchetto azionario raggiunge soglie ritenute «rilevanti» (2%, 5% e i multipli di 5), lasciando quindi i grandi investitori liberi di muoversi entro tali griglie. Non solo, molti soggetti esteri, facendo perno su una direttiva europea più lasca, esercitano poi la facoltà di «autodenunciarsi» solo oltre il 5 per cento.
Basta tuttavia guardare sotto il pelo dell'acqua, per vedere l'altra parte della verità: la progressiva ritirata dei soci italiani. A partire dalle Fondazioni, spesso costrette a fare a pugni tra la penuria dei dividendi e le necessità patrimoniali degli istituti di cui hanno garantito la stabilità per decenni. Fino al caso limite del Monte Paschi, dove la Fondazione Mps, che otto anni fa controllava la metà del capitale, è stata ora costretta con Antonella Mansi a ridursi al 15%. Pacchetto peraltro destinato perlomeno a dimezzarsi dopo l'aumento di capitale da 3 miliardi indispensabile per rimborsare i Monti bond. I soci esteri, all'epoca assenti a Siena, pesano invece adesso per un 10% abbondante. Palazzo Sansedoni paga l'audacia con cui in passato si è indebitata per proiettare Mps nell'acquisto di Antonveneta, ma altrettanto complessa è la situazionea a Genova, dove la Fondazione Carige non ha il denaro per coprire l'aumento di capitale della banca omonima, o nella più piccola e semi-commissariata Banca Marche.
La ritirata è insomma generalizzata, come conferma un rapido confronto tra l'attuale libro soci delle prime tre banche italiane e quello del 2006, quando Mario Draghi ha preso la guida di Bankitalia, sancendo una rottura con l'era di Antonio Fazio, per poi consegnarla a Ignazio Visco e affrontare la crisi dell'euro dal vertice della Bce. I fondi esteri hanno infatti da tempo superato il peso delle Fondazioni storiche anche in Unicredit, di cui sceicchi, libici, russi e americani possiedono a vario titolo complessivamente quasi il 23%, contro poco più dell'8% detenuto da Cariverona, Caritorino e Carimonte, quota che sale all'11% grazie al 3% del fondatore di Luxottica, Leonardo Del Vecchio. Sebbene BlackRock con il 5% sia il suo secondo azionista, mantiene invece una connotazione più «italiana» il capitale di Intesa Sanpaolo, dove il nucleo delle Fondazioni (con Generali) resta al 27,1%.
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