Amazon taglia 100mila posti. L'inflazione colpisce i ricavi

Fatturato su del 7% ma le vendite "on line" calano del 4%. Pesa l'aumento dell'energia e dei prezzi al consumo

Amazon taglia 100mila posti. L'inflazione colpisce i ricavi

You're fired!. Un sei licenziato pronunciato centomila volte. Amazon cambia spartito: dall'allegro andante ai tempi del Covid, quando gli organici erano raddoppiati sull'onda dell'esplosione dell'e-commerce a causa delle clausure collettive, al requiem odierno per i lavoratori ghigliottinati senza troppi complimenti. Sono le antiche ricette per far fronte alla crisi che tanto piacciono a Wall Street, dove la trimestrale di Amazon ha strappato applausi non solo per la crescita dei ricavi (vendite per 121,3 miliardi, +7% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente) e per le stime sul prossimo trimestre (125-130 di giro d'affari), ma anche perché lo sfoltimento degli organici, il modo più semplice per comprimere i costi fissi, viene sempre accolto in modo positivo. Ciò che i mercati sembrano non voler vedere è che, a differenza del fatturato nei negozi fisici (+12%), con la fine dei lockdown la regina del commercio digitale continua a soffrire un calo delle vendite nel suo core business, il settore online (-4%).

Jeff Bezos sembra quindi aver sbagliato i conti, e non solo a causa della scommessa sul produttore di veicoli elettrici Rivian, una palla al piede che ha pesato sul trimestre provocando una perdita complessiva di due miliardi. Forse anche il multimiliardario è stato vittima di quell'allucinazione collettiva basata sulla transitorietà dell'inflazione. Un fenomeno effimero - si diceva - che non avrebbe prosciugato più di tanto, e a lungo, le tasche degli americani. Il carovita continua invece a galoppare negli States (al 9,1% nel mese di giugno), nonostante la Federal Reserve stia cercando di mettergli il morso con ripetuti rialzi dei tassi. Un'aggressività che non si vedeva dagli anni '80, quando al timone della banca centrale c'era Paul Volcker.

Di fatto, con i seimila miliardi di dollari messi nelle tasche degli americani durante la pandemia, l'amministrazione Biden ha generato un mostro bicefalo: la prima testa ha permesso di sostenere la ripresa attraverso il canale dei consumi; l'altra ha presentato il conto sotto forma di un'esplosione dei prezzi. La successiva contrazione della domanda ha determinato uno scivolamento nella recessione tecnica alla fine del primo semestre.

Del resto, la prima forma di auto-difesa delle famiglie di fronte ai rincari è l'elementare riduzione delle spese voluttuarie; le aziende, invece, stringono sui costi della pubblicità. Questa azione a tenaglia non è indolore per Big Tech, poiché il segmento non offre nulla in termini di bisogni primari da soddisfare e spesso prospera grazie agli inserzionisti. Non è quindi un caso se, a cavallo di aprile e giugno, siano stati bruciati altri 30mila posti di lavoro sul versante delle società tecnologiche. Peloton ha già mandato a casa quest'anno 2.800 dipendenti, Robinhood, salita alla ribalta nella disputa per Gamestop fra i trader online e i fondi speculativi, ha ridotto in aprile del 9% i propri organici, mentre Twitter ha tagliato in giugno del 30% il team acchiappa-talenti. Una massiccia espulsione di occupati tale da far lievitare le richieste di disoccupazione ai massimi da otto anni.

Nel prossimo futuro, andrà anche peggio: nomi di punta come Microsoft, Google, Netflix e Facebook hanno già messo in canna il proiettile dei licenziamenti.

Insomma: se il mercato del lavoro Usa pare ancora godere di buona salute, il rischio è che il settore tecnologico sia il classico canarino in miniera, cioè il primo sintomo della prossima asfissia generale.

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