Economia

Anatomia di un disastro: così è affondato il Monte dei Paschi

Il Monte dei Paschi è in crisi da vent'anni. E la sua problematica è un fardello per una città, Siena, la cui economia è fortemente legata alla banca

Anatomia di un disastro: così è affondato il Monte dei Paschi

Non si può pensare a Siena senza pensare al Monte. Tanto che a lungo nella città si diceva che la popolazione si divideva in tre parti: coloro che lavoravano a Monte dei Paschi di Siena, coloro che vi avevano lavorato e coloro che vi avrebbero voluto lavorare. Mps è stata per secoli il polmone finanziario della città, un'istituzione antica che richiama il suo nome dagli antichi pascoli (paschi) del contado senese, la banca più longeva del mondo e, nel secondo dopoguerra, un istituto stabilmente tra i dieci più grandi d'Italia per attivo e operazioni nonostante la sua distanza dai grandi centri della finanza istituzionale.

Il primo ventennio del XXI secolo ha segnato però un graduale tracollo di Mps. E il motivo può essere sostanzialmente ricondotto a una duplice problematica: da un lato, la scelta di separare i destini del Monte e quelli della città di Siena, svincolando la banca dal suo necessario riferimento territoriale; dall'altro, la scelta di imbastire una serie di operazioni problematiche e opache che hanno sconvolto i conti e travolto la credibilità di Mps.

Sul primo fronte, è bene sottolineare che dalla nascita del Monte nel 1472, alla storica decisione di quotarsi in borsa a Milano nel 1999 la storia della città e della banca hanno proceduto assieme in forma armonica. Lo sbarco di Mps a Piazza Affari, lungi dal ridurre questo rapporto di mutua dipendenza, l'ha semmai perverso e reso sempre più innaturale.

Sul secondo, invece, non possono non essere taciute le responsabilità di un management ben poco preparato a gestire la fase di crisi acuta del mondo finanziario che i primi Anni Duemila avrebbero prodotto e di un sistema di potere organico al centrosinistra locale e nazionale che ha agito in maniera accomodante con le ardite espansioni di un gruppo che nelle intenzioni dei suoi referenti politici doveva diventare la banca per eccellenza del mondo progressista nazionale. Un polo, potremmo dire, solidamente "organico" capace di rivaleggiare con attori come Unicredit e Intesa.

Anello di congiunzione tra queste tematiche il problematico affare Antonveneta. La madre di tutte le battaglie e di tutte le disfatte che hanno contraddistinto Mps nell'ultimo ventennio. Il Monte aveva, nei primi Anni Duemila, promosso un'operazione finanziaria e di soft power di graduale ampliamento della sua esposizione in termini concreti e di visibilità, di cui al grande pubblico arrivarono in particolar modo le operazioni sportive a sostegno della squadra calcistica del Siena e del Mens Sana Bakset. Ma tutta la questione della crescita della visibilità della banca andava nella direzione della legittimazione dell'azione di espansione nazionale. Sotto accusa, vedendo la vicenda col senno di poi, la hybris della governance guidata dall'ad Giuseppe Mussari che a inizio Anni Duemila volle fare il passo più lungo della gamba cercando di portare Mps, allora quarto gruppo bancario italiano, a rilevare Antonveneta per 9 miliardi di euro dall'istituto spagnolo Banco de Santander.

Nel 2007 l'operazione andò in porto con l'appoggio del governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi. Il nuovo acquisto venne definito "l’affare dell’anno dai leader economici e politici italiani", sottolinea La Gazzetta di Siena. "In effetti lo fu ma per Botin, il patron del Banco Santander che era riuscito a cedere una banca a dir poco malandata”. Il danno per Mps iniziò lì, assiema alla spirale discendente che sarebbe stata accelerata dalla Grande Recessione. Travolsero Mps la tempesta dei debiti sovrani del 2010-2011, la crisi giudiziaria e i torbidi del 2012-2013, lo scoppio della bolla dei crediti deteriorati, la destabilizzazione del tessuto bancario del Centro Italia tra il 2015 e il 2017 che diede il colpo di grazia al Monte. Il fatto che gli unici manager che, chiamati ai vertici, abbiano provato a invertire la corrente siano stati Domenico Viola e Alessandro Profumo e abbiano ricevuto come "premio" processi e condanne per colpe non loro segnala la difficoltà in cui si è dibattuta da allora la banca più antica d'Italia. Messa all'angolo dal peccato originale dell'operazione Antonveneta. Spinta ai margini dalla mancanza di realismo di manager e dirigenti che hanno mandato a terra una banca, una città, un sistema intero prima del terremoto che ha sconvolto le banche toscane.

E tuttora Siena e il Monte sono legate, loro malgrado, da un dualismo inevitabile: la città non ritroverà serenità e sviluppo finché la banca non tornerà a una situazione di reale stabilità.

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