Addio salotti, nocciolini duri e patti fra soci storici. L'avanzata dei fondi nel capitale delle società quotate, dalle big del credito a quelle dell'industria, rappresenta una nuova sfida per gli azionisti di riferimento. Soprattutto al momento del voto in assemblea.
Lo dimostrano alcune novità negli statuti, come la possibilità per il cda di presentare una sua lista di successori che tra i potenziali effetti ha quello di lasciare fuori dal board i soci di maggioranza relativa. È successo nei giorni scorsi in casa Prysmian. Il copione si ripeterà anche per gli storici crocevia del capitalismo italiano da Mediobanca alle Generali?
L'assemblea di Prysmian, il gruppo di cavi per l'energia e le tlc, ha approvato la modifica dello statuto inserendo per prima in Italia la lista del cda il 14 aprile del 2011. L'impatto si è però visto lo scorso 12 aprile quando i soci hanno eletto il nuovo board: l'elenco di consiglieri presentato e guidato dall'ad Valerio Battista ha conquistato 10 poltrone ottenendo il 62% dei voti e facendo uscire dal board Giovanni Tamburi, numero uno di Tamburi Investment Partners e primo socio privato di Prysmian. La lista Tamburi ha preso il 7,1% dei voti e non ha ottenuto rappresentanti in consiglio mentre quella di Assogestioni ha raccolto il 28% e conquistato due posti.
Il nuovo schema di governance, che guarda al mercato anglosassone più evoluto, evita le storture che il voto di lista tradizionale può portare in società divenute public company come Prysmian: alcuni soci con un investimento limitato potrebbero eleggere tutto (o quasi) il cda, esponendo la società a rischi di conflitto d'interesse tanto più gravi quanto più bassa è la quota di capitale detenuta. Anche Unicredit ha inserito nello statuto la lista del cda: l'aumento di capitale da 13 miliardi ha aperto la porta ai grandi fondi stranieri, dimezzato il peso delle fondazioni e rafforzato la leadership dell'ad, Jean Pierre Mustier. Ebbene, il 12 aprile l'assemblea di Unicredit ha nominato il nuovo consiglio con la riconferma di Mustier al timone e la presidenza affidata all'ex ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni. A favore della lista del cda ha votato l'89,59%, per quella dei fondi si è espresso poco più del 7 per cento. Segno che l'elenco stilato dai manager può comunque coagulare il consenso di tutti i soci, compresi quelli di mercato.
Si è mossa pure Mediobanca, di cui Unicredit è azionista con quasi l'8%: la lista del cda è già prevista come opzione nel nuovo statuto e tra tre anni, con il prossimo rinnovo del board, una rosa di nomi potrà essere presentata direttamente dal vertice uscente guidato da Alberto Nagel. Manca, invece, ancora all'appello la partecipata storica di Piazzetta Cuccia: Generali. Che per ora non prevede, nemmeno nello statuto, di far scegliere al Consiglio i suoi successori. «Lo strumento della lista del cda è neutro, l'impatto dipende piuttosto dal fine con il quale vi si ricorre. Può servire per non far diventare il board terreno di scontro ma anche per evitare assalti dall'esterno», commenta Stefano Modena, managing partner di Governance Advisors. Cosa succederebbe al salotto del Leone se il board uscente potesse decidere a chi passare il testimone? A Trieste l'azionariato è in movimento: la partecipazione di Mediobanca è destinata a scendere dal 13 al 10% ma all'ultima assemblea il nucleo dei soci italiani è tornato a superare gli investitori istituzionali esteri nel capitale della compagnia. Dopo l'incremento della quota di Caltagirone e l'ingresso dei Benetton, il nocciolo tricolore vale il 23,1% contro il 22,9% degli istituzionali esteri.
E il tema dell'italianità è tornato sul tavolo delle Generali, il cui timone è nelle mani del francese Philippe Donnet che fino al 2016 sedeva nel cda della Vivendi di Vincent Bolloré, impegnato nella battaglia contro il fondo attivista Elliott sulla governance di Telecom.
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