Neanche il tempo di accomodarsi, e già la poltrona di Christine Lagarde scotta. A poche ore dalla riunione di domani, c'è subito una bella gatta da pelare per la presidente della Bce: secondo la ricostruzione del Financial Times, pare che quattro funzionari, in rappresentanza di altrettante banche centrali nazionali componenti il board, abbiano depositato sulla scrivania dell'ex capo del Fondo monetario internazionale la richiesta di rottamare l'aspetto più peculiare - e più avversato dai falchi - della gestione di Mario Draghi. Ovvero, l'invito esplicito a ricondurre l'asse delle decisioni nell'alveo della collegialità ogni qualvolta si dovranno prendere decisioni di politica monetaria.
Ciò ha un significato preciso: le scelte di alto profilo, quelle che più impattano sulla gestione dell'Eurotower - dai tassi d'interesse alle misure non convenzionali tipo il Qe, fino agli strumenti di supporto alle banche come gli Ltro e Tltro -, vanno fatte passare dal voto di ogni singolo componente del direttivo, composto dai 19 leader dei vari istituti centrali nazionali e dai 6 membri del comitato esecutivo, tra cui lo stesso presidente. Esattamente il contrario rispetto a quanto imposto dall'ex governatore di Bankitalia, abituato fin dai tempi del «Whatever it takes» ad annunciare le linee-guida dell'istituto centrale senza passare prima dalla discussione in consiglio.
La tendenza accentratrice di Super Mario ha permesso alla Bce di fare ciò che andava fatto per contrastare le emergenze. Ma è palese che la parte terminale del suo mandato, contrassegnata oltretutto dal varo del Qe 2.0 visto da molti come il fumo negli occhi, abbia finito per dare la stura al malessere di chi, per anni, ha dovuto ingoiare rospi senza (quasi) fiatare. Quanto successo in occasione della riunione di settembre ha offerto la plastica rappresentazione di una frattura insanabile, con le voci fuori dal coro del direttore d'orchestra a esprimere con forza, e fuori dalla segrete stanze, note dissonanti. Nonostante Draghi abbia cercato di minimizzare i contrasti interni, già le clamorose dimissioni, con un anticipo di due anni, della tedesca Sabine Lautenschläger avevano mostrato il contrario.
Oggi la Lagarde si trova a gestire un board spaccato a metà, a dar retta agli spifferi che indicavano in almeno dieci i membri contrari all'ultima tornata di misure. Di sicuro, il mancato rinvio del nuovo round di acquisto titoli (20 miliardi di euro al mese con la formula open ended) ha portato sulle barricate non solo i custodi dell'ortodossia monetaria come la Bundesbank di Jens Weidmann e i suoi alleati (Austria, Olanda ed Estonia), ma anche Francia e Slovenia. E perfino il numero uno della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha storto il naso di fronte a tassi sempre più negativi.
Il repentino pressing sull'ex direttore del Fmi conferma l'urgenza dell'ala dura di cambiare in fretta i connotati della Bce. L'alibi è quello di rendere l'istituto di Francoforte simile alla Fed e alla Bank of England, dove il voto di ogni singolo consigliere viene reso pubblico.
È una moral suasion che forse sfonda una porta aperta: la Lagarde, come ha avuto modo di spiegare, intende favorire «il lavoro di squadra». Un cambio di passo che potrebbe spostare gli equilibri interni verso una politica meno accomodante. Domani vedremo se il «gufo saggio», come si è di recente definita, ha già il piumaggio del falco.
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