«La crisi non è finita, l’Europa mantenga le promesse»: così il governatore della Fed, Ben Bernanke, bacchetta il Vecchio continente. Ma a preoccupare le Borse europee ieri è stato soprattutto un dato americano, rivelatosi ben inferiore alle attese: a febbraio le vendite di case esistenti sono calate dello 0,9%, mentre gli analisti scommettevano su un rialzo dell’1,4%. Uno scossone da cui le piazze europee si sono riprese solo in parte - Francoforte +0,23%, Parigi -0,1%, Londra invariata - con l’eccezione di Milano, maglia nera, con il Ftse Mib che ha chiuso in ribasso dell’1,29%.
Piazza Affari non ha festeggiato, dunque, la fine dell’articolo 18, tutt’altro: proprio il mancato accordo tra il governo e le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro ha riportato lo spread sopra i 300 punti e il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni oltre la soglia psicologica del 5 per cento, per la prima volta dal 6 marzo.
Rialzi anche più netti sui bond della Spagna dopo che un esponente del gruppo bancario Usa, Citi, ha sollevato dubbi sulle prospettive del Paese. I rendimenti dei Bonos a 10 anni sono saliti al 5,40 per cento, lo spread sui Bund a 342 punti base. Mentre sullo sfondo internazionale lampeggiano i ripetuti segnali di una frenata dell’economia cinese, come la minore domanda di materie prime, a partire dal ferro.
Ma la sorvegliata speciale è ancora l’Europa. In un’audizione al parlamento Usa, il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha avvertito che «la situazione resta difficile» sebbene si siano «attenuate le tensioni». E l’Ue deve fare molto di più: «Abbiamo incoraggiato l’Europa a muoversi verso un’unione fiscale. Gli Stati Uniti, al contrario dell’Europa, sono un’unione fiscale e monetaria», ricorda Bernanke.
Non solo: il sistema finanziario europeo «dev’essere ulteriormente rafforzato», afferma il numero uno della Banca centrale americana, sottolineando che «la Fed monitora la situazione da vicino ed è pronta ad agire» qualora gli Stati Uniti dovessero subire un contraccolpo negativo. Per il momento, tuttavia, l’esposizione americana alla crisi europea «è molto limitata» e in ogni caso la Fed non considera l’ipotesi di acquistare il debito dei Paesi europei in «difficoltà». E a dargli manforte è intervenuto il segretario al Tesoro, Timothy Geithner: «Non aiuteremo l’Europa mettendo a rischio i soldi dei contribuenti americani», ha precisato. L’Europa, dunque, può e deve fare da sé, e puntare sulla crescita: «In Grecia, Irlanda e Portogallo - dice Geithner - non c’è alternativa a quella di varare un misto di riforme. Nel resto d’Europa hanno ancora un po’ di tempo e spazio per fare più attenzione e riequilibrare il passo». Come in un concerto a più voci, ma tutte sulla stessa tonalità, da Berlino gli fa eco la cancelliera Angela Merkel, avvertendo che «la crisi non è finita», ma semplicemente entrata in una nuova fase, cruciale perché si deciderà se l’Europa è in grado o meno di voltare pagina. «Ora ci troviamo in un momento decisivo - ha continuato - quali sono le condizioni per la stabilità, quale crescita possiamo ottenere, che speranze hanno gli investitori europei, americani o giapponesi che mettono i loro soldi nei nostri Paesi di rivedere i loro investimenti?». Per la Germania, ha concluso la Merkel, «la politica europea, soprattutto per ciò che concerne l’Eurozona, è sempre più una questione di politica interna», sottolineando la stretta dipendenza che esiste tra l’economia tedesca e quella dei Paesi vicini.
E sulla stessa linea si colloca Joerg Asmussen, il consigliere tedesco nel board della Bce che, in un’intervista al settimanale Die Zeit, non ha reticenze: la crisi in Europa non è finita, ma «non bisogna credere che ci saranno altri prestiti a tre anni» da parte della Banca centrale europea. Non solo: è «ancora troppo presto», per Francoforte, per ritirare le misure di stimolo, ma la Bce deve «cominciare a preparare una exit strategy».
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