Caos Turchia, Bce ricarica il bazooka

Ankara caccia il governatore centrale, lira a picco. Il Pepp sale fino a 21 miliardi

Caos Turchia, Bce ricarica il bazooka

Detto, fatto. Allo scopo di stemperare le pressioni sui tassi d'interesse, la Bce mantiene la promessa di aumentare in «modo significativo» lo shopping di titoli di Stato nell'ambito del Pepp, il piano contro l'emergenza pandemica. Nell'ultima settimana gli acquisti netti sono cresciuti a 21,05 miliardi, dai 14 di sette giorni prima, toccando il livello più alto da tre mesi e un totale di 913 miliardi da quando, giusto un anno fa, sono stati varati gli aiuti che hanno evitato il collasso dell'eurozona. «Il Pepp - ha detto ieri la presidente dell'istituto di Francoforte, Christine Lagarde (nella foto) - ha stabilizzato i mercati finanziari impedendo alle turbolenze di mercato della primavera dello scorso anno di trasformarsi in un crollo finanziario in piena regola con conseguenze devastanti per i cittadini europei».

Un rischio che corrono invece i turchi. La loro lira è un colabrodo, l'inflazione galoppante (è arrivata al 15%) aggiunge altra ruggine corrosiva al potere d'acquisto dei sudditi di Recep Tayyip Erdogan, e la defenestrazione brutale del governatore della banca centrale, Naci Abal, ha inferto un altro colpo mortifero alla già precaria salute valutaria del Paese, nonché alla sua credibilità sui mercati internazionali. Ieri la lira è precipitata fino al 17% contro il dollaro, non molto distante dal minimo storico 8,5793 di novembre, segno palmare che è andato in fumo il lavoro di cinque mesi per rinsaldare la politica monetaria.

Dal luglio 2019 il sultano di Istanbul ha licenziato quattro governatori, sempre per lo stesso strampalato motivo: il rialzo dei tassi fa surriscaldare il carovita. Dovrebbe essere esattamente il contrario, ma Erdogan riscrive per uso proprio i manuali di macroeconomia, e guai a contraddirlo. Chi ci prova, viene defenestrato. L'ultimo capo della Tcmb è stato silurato per aver alzato, durante il brevissimo mandato, il costo del denaro di 450 punti base (al 19%), pur avendo bloccato la «dollarizzazione» dell'economia, fermato l'emorragia della lira, risalita del 18%. Inoltre, le strette avevano permesso ad Ankara di collocare bond per 3,5 miliardi di dollari, mentre i depositi in valuta estera dei turchi detenuti presso banche locali erano scesi a 230,3 miliardi di dollari, dal picco di 236,1 miliardi di gennaio.

Adesso, è probabile il ripetersi del copione già visto altre volte nel Paese sul Bosforo: forti deflussi di capitali da parte di investitori locali e internazionali (in attesa di probabili misure restrittive sui movimenti) e scarse munizioni per difendere il cambio, visto che le riserve nette ammontano ad appena 11 miliardi di dollari. SocGen prevede tempi duri per la lira, destinata a toccare un minimo di 9,7 dollari entro il secondo trimestre, e ha ordinato il «rompete le righe» ai clienti esposti con la Turchia. «Nei prossimi mesi - spiega la banca francese - potrebbe essere difficile per la Turchia evitare un'altra crisi valutaria».

Insomma, il Paese rischia il tracollo. E certo molti turchi non saranno d'accordo con il capo della Federal Reserve, Jerome Powell, secondo cui le criptovalute non sono «un bene rifugio» e hanno nel loro dna i geni degli «strumenti speculativi».

La Fed non intende imprimere un'accelerazione alla sua moneta digitale, ma anche la Bce «non ha fretta». Parole del capo della Buba, Jens Weidmann, più impegnato a impedire un aumento degli stimoli monetari, piuttosto che essere preoccupato della crescente popolarità del Bitcoin e dalle sue cripto-sorelle.

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