Chi pagherà il conto?

Il decreto da 7,5 miliardi per affrontare il coronavirus avrà pesanti ricadute economiche: tre ipotesi post emergenza

Chi pagherà il conto?

La crisi si fa già sentire sull' economia reale, ma anche il decreto da 7,5 miliardi per fare fronte all' emergenza, con i suoi 6,3 miliardi di deficit avrà degli effetti pesanti, in questo caso sulle finanze pubbliche. E siccome il ricorso al rosso di bilancio non è neutro e ha dei limiti dettati dall' Europa e dei mercati, qualcuno dovrà pagare comunque il conto. Facile tirare fuori a questo punto una «virus tax», magari sotto forma di aumenti dell' Iva non disinnescati, con la nobile giustificazione di finanziare l' assunzione dei medici che ci aiuteranno a superare la crisi sanitaria. Ma non si possono nemmeno escludere inversioni a U nelle politiche europee, con l' allentamento delle regole che vincolano i bilanci nazionali. Il contesto politico di Bruxelles non è molto favorevole a una soluzione del genere, ma non è detta l' ultima parola. Anche perché, sempre nel delineare possibili scenari, quello di un default è il meno probabile, ma in linea teorica non è da escludere. Possibile nel caso in cui tutti voltino le spalle all' Italia.

Il pressing sui partner Ue per la flessibilità sui conti

Un cambiamento delle regole è lo scenario auspicato da tanti, ma osteggiato dai paesi del Nord, che poi sono soci più pesanti dell'Unione europea. Il Patto di stabilità e la governance europea sono stati riformati più volte nel corso degli anni. La flessibilità introdotta nel 2015 dal commissario Jean-Claude Juncker, che ha consentito all'Italia di chiudere quattro bilanci senza incorrere in procedure di infrazioni, rischia di esser insufficiente rispetto alla sfida posta dal coronavirus.

Una soluzione a breve è che all'Italia e agli altri Paesi più colpiti si applichi il trattamento a suo riservato alla Francia, «con un deficit-Pil al 3,2% concordato con la Commissione», ricorda Giuseppe Di Taranto, professore di storia economica alla Luiss. Un allentamento delle norme europee che vincolano i bilanci nazionali (Patto di stabilità, fiscal compact, Two e Six Pack) potrebbe anche passare da un minor peso del debito pubblico nella valutazione dei conti pubblici.

Altra possibilità è quella di escludere dal deficit utile al Patto di stabilità la spesa per investimenti. La cosiddetta golden rule che molti vorrebbero accompagnare con l'introduzione di eurobond, obbligazioni europee che finanzino gli investimenti degli stati membri e, in prospettiva, spalmino il rischio debito dei singoli paesi su tutta l'area Euro. Scenario combattuto tenacemente dagli stati del Nord e soprattutto dalla Germania.

La necessità di mettere in atto politiche anticicliche, in questo caso scelte che contrastino gli effetti della crisi da coronavirus, anche ricorrendo alla spesa pubblica, è sentita da molti. Antonio Tajani dalle pagine del Giornale ha proposto un intervento della Banca centrale europea che porti liquidità. Al momento nell'agenda europea ci sono misure che vanno in direzione opposta, a partire da una riforma della governance che penalizza le nostre banche.

La «virus tax» una tantum proporzionale al reddito

Il passaggio chiave della lettera inviata al ministro dell'Economia Roberto Gualtieri al Vice presidente della Commissione Europea, Valdis Dombrovskis è quello nel quale l'esponente Pd si dice convinto che «aumentare il carico fiscale per coprire il costo del pacchetto di emergenza in questa fase potrebbe aggravare i rischi al ribasso per l'economia italiana». In sostanza Gualtieri mette le mani avanti in vista di una prevedibile richiesta di Bruxelles: l'Italia paghi gli interventi per l'emergenza aumentate le tasse. Un incremento è già pronto ed è quello dell'Iva previsto dalle clausole di salvaguardia che, a legislazione vigente, scatterà nel 2021. Permetterebbe di alleggerire il conto della prossima legge di Bilancio di 20 miliardi di euro e sarebbe in linea con la più classica delle raccomandazioni dell'Unione europea all'Italia: spostare la tassazione dal lavoro ai consumi. Peccato che gli aumenti dell'Iva rischiano di affossare i consumi e l'economia.

Ma tra le suggestioni circolate ieri c'è anche quella di una virus tax. Intervento una tantum come potrebbe essere una patrimoniale, che non è estranea al Dna della maggioranza di governo. Oppure come prelievo sui redditi come l'eurotassa varata dal governo Prodi nel 1998. Sacrificio proporzionale al reddito per salvare il principio della progressività. Un sacrificio dei più ricchi nei mesi scorsi non è stato escluso nemmeno dal ministro Gualtieri durante il dibattito sulla riforma fiscale.

Proprio la rimodulazione delle aliquote Irpef che dovrebbero animare la fase due del governo Conte rischia di diventare la vittima predestinata della crisi da coronavirus. Le misure del decreto in corso di scrittura sono tutte di spesa corrente. La leva fiscale non fa chiaramente parte della ricetta per l'emergenza (a parte il rinvio dei pagamenti). Ma nemmeno di quelle per il rilancio dell'economia.

Lo spettro del «cigno nero» e del default sui mercati

Scenario più improbabile, ma da tenere in considerazione visto che negli ultimi anni il «cigno nero», cioè l'evento inaspettato che mette a rischio l'equilibrio del sistema economico si è ripresentato con una certa frequenza. Non sarà il conto salatissimo della legge di Bilancio 2021 a mandare in default l'Italia. Ma se insieme al costo delle misure del coronavirus si dovessero materializzare anche quello di una eventuale sfiducia dei mercati, la situazione potrebbe complicarsi.

In questi giorni gli analisti stanno ad esempio sondando le agenzie di rating per capire cosa ne pensino di una cura da coronavirus fatta da spesa pubblica in deficit. E le risposte non sono tutte tranquillizanti. In particolare, la soglia del 2,5% nel rapporto deficit/Pil è ritenuta la linea del Piave oltre la quale potrebbe scattare un outlook negativo se non un abbassamento del rating. I giudizi arriveranno in tempi brevi. Il 24 aprile 2020 tocca a S&P, l'8 maggio a Moody's.

Un'indicazione del clima lo dà il livello dello spread. Nei primi giorni della crisi da coronavirus è rimasto su livelli tutto sommato bassi. Negli ultimi giorni il differenziale tra Btp decennale italiano e Bund tedesco è arrivato a livelli che ricordano la crisi di governo che ha portato alla fine del primo esecutivo Conte. Ieri ha toccato i 192 punti. Livelli ancora accettabili, anche se non rispecchiano il reale stato dell'economia italiana. Paese dai conti pubblici traballanti ma con un'economia reale solida.

Se i mercati dovessero prendere di mira il Belpaese, magari perché convinti che la crisi stia compromettendo la capacità delle imprese di sopravvivere, lo spread potrebbe salire. O detta in altro modo, i rendimenti dei titoli di debito pubblico italiano salirebbero, magari fino a diventare insostenibili. Scenario improbabile, anche perché destabilizzerebbe tutta l'Europa.

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