Chi si inchinava agli Agnelli ora grida al lupo

Marchionne è attaccato anche da imprendi­tori col dente avvelenato e memori degli aiuti che gli Agnelli ebbero dallo Stato an­ni orsono

Chi si inchinava agli Agnelli ora grida al lupo

Destino crudele e bef­fardo. Sergio Mar­chionne, il manager che ha salvato la Fiat dal tribunale e rimesso in piedi al­la grande la Chrysler ( oggi ha un at­tivo mostruoso), è considerato ne­gli Stati Uniti un fenomeno, men­tre in Italia una specie di imbro­glione da cacciare subito a male­parole. Come mai giudizi diame­tralmente opposti sulla medesi­ma persona? Il discorso sarebbe lungo, ma il nostro sarà breve. Gianni Agnelli morì il 23 gen­naio 2003 lasciandosi dietro un’azienda tec­nicamente fallita.
In­tervennero le solite banche e se ne impa­dronirono, ma non combinarono nien­te di buono.

A un certo punto, Gianluigi Gabetti, un signo­re che la sapeva e la sa lunga in campo finanziario, ebbe l’idea giusta: assumere Sergio Mar­chionne, dandogli carta bianca. Disse: «Se non ce la fa lui, non ce la può fare nessuno». Fu ascoltato. Ecco le cifre. Nel 2004 la Fiat era quotata 6 miliardi di euro. Oggi, nonostante la crisi economica e quella dell’auto, è quotata 16 mi­liardi. I numeri non tradiscono mai. Basterebbe questo dato a di­mostrare che il dirigente di origini abruzzesi, figlio di un maresciallo dei carabinieri e residente in Sviz­zera, non è l’ultimo micco.

Sistemate le cose, egli alzò lo sguardo da Torino puntandolo su­gli States, dove le fabbriche di vet­ture erano allo stremo. E col capi­tale Fiat entrò nella scassatissima Chrysler. Qualcuno gli diede del matto. Invece lui aveva capito tut­to: o le aziende, in piena globaliz­zazione, hanno dimensioni inter­nazionali e si buttano alla conqui­sta del mercato mondiale, o ri­schiano una brutta sorte. Ora la Chrysler è una potenza. Fattura una montagna di miliardi e ha un reddito formidabile col quale il ra­mo secco italiano della Fiat è tenu­to in vita, malgrado perda molti soldi. Perché per­de, contrariamente al­le previsioni dello stesso manager? Semplice e dramma­tico. Il mercato euro­peo, per le note ragio­ni, è fiacco; quello di ca­sa nostra è moribondo, calato ai livelli degli anni Ses­santa. In una fase simile, ovvio che Marchionne non si azzardi a fare da queste parti degli investi­menti. Significherebbe gettare al vento parecchio denaro, assoda­to che le vacche magre continue­ranno a essere tali almeno per un biennio ancora. Infatti, produrre nuovi modelli all’altezza della concorrenza non servirebbe a sti­molare gli acquisti, poiché la gen­te ha pochi soldi nelle tasche - al­leggerite da prelievi fiscali senza uguali sul globo terracqueo - e quei pochi non li spende di sicuro per cambiare la macchina.

Va da sé che non sono tempi di rilancio. Cara grazia che Marchionne non abbia deciso di chiudere le fabbriche esistenti, come la logica del profitto - l’unica valida nel­l’economia di mercato - suggerirebbe. Nonostante ciò, la Fiat è accusata di non mantenere i patti stretti alcuni anni fa con i sindacati, i quali non riconoscono che, frattanto, la situazione del Paese è precipitata e non consente di essere otti­misti nel breve e medio periodo. Cosic­ché Marchionne subisce una sorta di lin­ciaggio: attaccato da tutti, da destra e da sinistra, addirittura da alcuni imprendi­tori col dente avvelenato e memori degli aiuti che gli Agnelli ebbero dallo Stato an­ni orsono, fondi regalati o quasi affinché Mirafiori non tirasse le cuoia incidendo negativamente sull’occupazione.

A codesti signori non viene in mente che-all’epoca dei principali sostegni go­vernativi - al vertice aziendale c’era l’Av­vocato, proprio lui, venerato, vezzeggia­to, imitato, promosso re d’Italia dai me­dia. Il quale Avvocato ci provava sempre, quando era in difficoltà: bussava alle por­te del Palazzo e queste si spalancavano. Inchini e salamelecchi. Il re faceva pre­senti le necessità dell’impresa e i politici, che avevano accesso alla casa, gli doman­davano: maestà, di quanti miliardini ha bisogno? Breve conciliabolo. Quindi l’Avvocato se ne andava via col portafo­glio gonfio, cortesemente ringraziando. Quiz: chi era il cretino? Agnelli che inca­merava o il politico che sganciava?
In un Paese liberale non sarebbe mai accaduta una cosa del genere. Ma il no­stro non lo è mai stato e non lo è ancora, tant’èvero che siamo qui a dire che Mar­chionne è un mascalzone perché non sperpera quattrini per far funzionare o­pi­fici che non guadagnano ma ci smenano.
Non solo, preferisce produrre una nuova vettura in Cina (da vendersi lì) anziché in Italia. E ti credo. Se la producesse qui, per poi esportarla, i prezzi sarebbero pazze­schi, proibitivi per quel Paese dove, inve­ce, la manodopera (e i materiali) si paga una miseria.

Immagino l’obiezione: Marchionne ha avuto successo con la Chrysler perché Barack Obama lo ha caricato di denaro statale. Osservazione corretta, ma non del tutto. Il manager ha avuto un pacco di miliardi, però in prestito e a un tasso di in­teresse da strozzo: fino al 17 per cento. Poi, desiderando seguitare, esaminia­mo quanto avviene in Polonia e in Ser­bia, dove la Fiat ha delle fabbriche che te­oricamente potrebbero essere trasferite in Italia, ma ciò sarebbe una follia.

Gira e rigira, emerge sempre il proble­ma d­ei costi di produzione e di quelli deri­vanti dalle ostilità ambientali.
Da noi i sa­lari sono elevati anche se gli operai, per effetto del cuneo fiscale, percepiscono paghe da fame. Inoltre i posti di lavoro so­no infestati­di estremisti la cui attività tal­volta è ai limiti del boicottaggio. Sorvolia­mo sull’assenteismo, non solamente in coincidenza con le partite della naziona­le di calcio. Diciamo piuttosto che la Fiat ha in ballo col personale 70 cause giudi­ziarie dicui si può indovinare l’esito.Vo­gliamo rammentare la Fiom? Se alla Fer­rari si riesce a lavorare chi si deve ringra­ziare? Marchionne, autore di un repuli­sti compiuto senza che Confindustria muovesse un dito.

La stessa Confindu­stria da cui il dirigente è uscito con digni­tà. E noi ce la prendiamo con costui?

Poi ci interroghiamo sul perché il Pae­se non cresce. E ci lamentiamo che gli stranieri fuggano da noi come dalla pe­ste. Andiamo a nasconderci.

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