Economia

La Cina compra i maiali Usa. Ma alle Borse non basta più

Pechino allenta le tariffe di importazione per ridare fiato alla crescita. I timori per i consumi americani

La Cina compra i maiali Usa. Ma alle Borse non basta più

Per Pechino si tratta di un gesto che conferma la distensione dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti dopo la raggiunta intesa sulla cosiddetta «Fase Uno». Ma dietro la decisione presa ieri di eliminare o abbassare i dazi su 859 beni importati, a partire dal primo gennaio, c'è soprattutto l'urgenza di risollevare la domanda interna, dare un po' di respiro ai consumatori e tenere le dita incrociate per vedere l'effetto che fa sulla crescita economica. Non è infatti casuale che l'alleggerimento tariffario sia tarato sui beni alimentari, carne di maiale congelata in primis. La peste suina ha sterminato gli allevamenti cinesi e costretto le famiglie a sopportare aumenti di prezzo anche del 100%. Chi non poteva permettersi i rincari, ha cambiato dieta. Ora si cerca di porre rimedio abbassando dal 12 all'8% le tasse d'importazione. Con un occhio, comunque, anche alla classe media che potrà gustare un prodotto esotico come l'avocado grazie a un taglio dal 30 al 7% dei dazi. Le altre misure rivolte alla popolazione intervengono sui formaggi (da 12-15% a 8%) e sui farmaci contro asma e diabete (tasse azzerate), mentre il sostegno all'industria hi-tech viene garantito dall'annullamento delle tariffe sui semiconduttori.

Insomma, un intervento ad ampio spettro che va a toccare articoli che lo scorso anno hanno pesato per il 18% sul totale dell'import, per un controvalore di 389 miliardi di dollari. Un modo per provare a dare vigore a un'economia che, dopo il picco del 2007 (+14%), ha via via perso vitalità. Dal 2015 e fino all'anno scorso, la crescita del Pil è sempre stata inferiore al 7%; sarà così anche quest'anno. E il 2020 non promette nulla di buono: le stime collocano il tasso di sviluppo attorno al 6%. Troppo poco. Anche perché il Dragone rischia un appiattimento delle entrate fiscali, aumentate quest'anno di appena il 3,8% (+6,2% un anno fa). Sono i contraccolpi della guerra commerciale con Washington, il cui effetto più evidente è nel crollo dell'export verso gli Usa (-12,5% rispetto al +8,5% del 2028) e che, secondo Nomura, ha eroso 1,3 punti percentuali di Pil.

Cifre che sembrerebbero indicare l'assoluta necessità per l'ex Impero Celeste di chiudere in fretta, e con un happy end, la partita con Donald Trump. Eppure, da quando è stata annunciata l'intesa di primo livello fra Cina e America, le Borse sono rimaste fredde. Così ieri, complice anche il clima semi-festivo, Wall Street era in rialzo dello 0,4%, a un'ora dalla chiusura, solo grazie al balzo di Boeing dopo l'addio dell'ad, Dennis Muilenburg, mentre l'Europa ha chiuso in ribasso (-0,44%). I mercati paiono non solo stanchi delle chiacchiere, ma anche di misure fintamente pacificatorie come quelle prese ieri da Pechino. Vorrebbero un accordo vero, e pieno di contenuti. Tutto ciò che, oggi, manca ancora. E si guarda con preoccupazione ai segnali di debolezza dell'economia Usa, con gli ordini di beni durevoli scesi a novembre del 2%.

Il male è comune (vedi consumatori cinesi), ma senza il proverbiale mezzo gaudio.

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