La decisione di Inghilterra, Francia e Germania di introdurre una tassa sulle banche non è priva di un intento punitivo. Non completamente illegittimo, peraltro. È lì che i governi hanno raccolto con il cucchiaino i cocci di parecchi istituti, rimettendoli poi insieme con la colla dei (tanti) quattrini pubblici. Giusto dunque che chi ha sbagliato, paghi. Ma questo ragionamento può valere, indistintamente, per tutti? Perché mai, per esempio, una cassa di risparmio della Renania, rimasta insensibile alla sirena dei derivati, dovrebbe ora ripagare i costi di una crisi che non ha contribuito a creare?
È questa la domanda che si pongono, soprattutto, le nostre banche. Il sistema italiano, spesso accusato di non essere al passo con i tempi (cioè di essere poco avvezzo alle alchimie finanziarie), si è salvato dalla bufera grazie alle proprie attitudini vetero-bancarie. Questo approccio conservatore (e conservativo) ha evitato guai. Nessuna banca è stata sfiorata dal soffio di un rumor allarmante, nè una voce con la parola «fallimento» ha fatto tremare le vetrate di qualche istituto. A conti fatti, non un solo centesimo è stato chiesto allo Stato. Perfino uno strumento come i Tremonti-bond, creato per dare ossigeno più alle imprese che agli istituti, è rimasto sostanzialmente inutilizzato.
Se lidea di una stretta piace alle banche come una martellata sui piedi, anche a famiglie e imprese risulta sgradita. Il rischio è infatti quello di un trasferimento (sotto varie forme) dei costi della tassazione sulla clientela.
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