Dazi, ecco i problemi irrisolti dell'"armistizio" Usa-Cina

Preoccupa l'assenza di un documento ufficiale, resta aperto il caso Huawei e mancano i paletti sulle valute

Dazi, ecco i problemi irrisolti dell'"armistizio" Usa-Cina

Un lampo di luce capace di abbagliare i mercati, ma non in grado di rischiarare le molte, forse troppe, zone d'ombra che ancora gravano sui rapporti tra Stati Uniti e Cina. Più che un accordo vero e proprio, una rimodulazione del concetto di tregua. Questo è, nella sostanza, quanto pattuito venerdì tra Washington e Pechino nell'incontro fra Donald Trump e il vicepremier cinese, Liu He. Quasi un'attitudine gattopardesca con cui i due rivali mostrano di aver cambiato tutto anche se poco e nulla è cambiato. L'assenza della firma di entrambi su un documento ufficiale ne è già un indizio.

«Siamo arrivati alla fase uno di un accordo sostanzioso», ha assicurato Trump. Ma in realtà si tratta per ora di un piccolo step a rischio di prossimi inciampi che annullerebbero la possibilità di trovare davvero un big deal. Alcune fonti raccontano che l'accordo potrebbe essere messo nero su bianco al vertice Apec di Santiago il mese prossimo. Ma tre settimane sono un tempo lungo, durante il quale si può passare dai sorrisi buoni per i fotografi a un rinnovato, e magari più energico, braccio di ferro.

Mesi di conflitto e di continue ritorsioni da ambo le parti dovrebbero almeno aver insegnato che la prudenza, in questi casi, è d'obbligo.

Oltre a essere scritto sull'acqua, l'armistizio porta inoltre a galla alcuni punti oscuri. Se, a meno di una rottura clamorosa, non scatteranno martedì prossimo i 250 miliardi di dazi sulle merci cinesi importate negli Usa, e se l'America incassa dalla Cina acquisti di prodotti agricoli per 40-50 miliardi che serviranno a Trump per recuperare consensi nell'area rurale del Paese, l'accordo sulle valute è una cornice senza quadro. La Casa Bianca, dopo aver accusato Pechino di manipolare lo yuan, vuole la certezza che l'arma della svalutazione competitiva non verrà più usata. Dalle scarne informazioni rilasciate, risulta chiaro come debbano ancora essere trovati i criteri applicativi con cui impedire oscillazioni artificiali e non desiderate (da Washington) del renminbi. E altrettanto si può dire per quanto riguarda il trasferimento forzato di tecnologie: inserito nella «fase uno», il dossier potrebbe scivolare nella «fase due». Il nodo va infatti a toccare uno dei mattoni su cui la Cina ha costruito le proprie fortune, ovvero l'obbligo per le imprese straniere che sbarcano sul suo territorio di mettere a disposizione le loro proprietà intellettuali. Il fatto stesso che da un'intesa solo di facciata sia comunque rimasta esclusa Huawei, considerata dagli Usa una minaccia per la sicurezza nazionale e perciò impossibilitata a far affari con le corporation americane, dimostra quanto la distanza fra i due Paesi resti siderale su alcuni aspetti cruciali.

Ciò detto, rompere in modo brutale non conveniva a nessuno. Non alla Cina, la cui crescita è scesa al 6,2% nel secondo trimestre; non all'America, dove la Fed è stata costretta a varare un nuovo round di quantitative easing da 60 miliardi al mese dopo aver reso quasi strutturale l'intervento sul mercato repo per la carenza di liquidità. Resta ora da vedere come reagiranno nei prossimi giorni i mercati e come Trump si comporterà con l'Europa.

Dopo la sentenza della Wto, The Donald ha in mano una carta che vale 7,5 miliardi di tariffe punitive. «La speranza - ha detto il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini - è che i dazi non siano mai applicati e per questo è «necessario aprire subito la trattativa a livello comunitario e nazionale».

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