Con la firma del segretario al Commercio, Wilbur Ross, il dossier sull'eventuale inasprimento dei dazi sulle auto europee è arrivato sul tavolo di Donald Trump. Nessun dettaglio è stato ancora rivelato, ma stando ad alcune indiscrezioni il documento stabilisce che le importazioni di quattroruote dal Vecchio continente costituiscono una minaccia per la sicurezza nazionale. L'inquilino della Casa Bianca ha 90 giorni di tempo per prendere una decisione, e li sfrutterà tutti. Non solo perché, al di là della retorica iperbolica da twitter, l'intesa con la Cina sulla tariffe è tutt'altro che vicina (e Pechino continua a soffrirne, con le vendite di auto crollate in gennaio del 15,8% su base annua), ma soprattutto per il motivo che al tycoon conviene tenere Bruxelles sulla graticola il più possibile per aumentare il peso negoziale dell'America.
L'Unione europea, infatti, già frigge: se il rapporto consegnato a Trump «si traducesse in azioni a danno delle nostre esportazioni, la Commissione reagirebbe in modo rapido e adeguato», ha subito chiarito ieri un portavoce di Bruxelles, Margaritis Schinas. Insomma, un'immediata ritorsione che andrebbe a colpire merci Usa per un controvalore di 20 miliardi di euro, come annunciato da Jean-Luc Demarty, direttore generale del commercio presso la Commissione europea.
Le preoccupazioni legate all'introduzione di tariffe del 25% (contro l'attuale 2,5%) sui modelli made in Europe, sono peraltro legittime. In gioco ci sono cifre importanti, e per la precisione i 37,4 miliardi di euro che rappresentano, in base ai calcoli dell'Acea, le vendite 2017 effettuate negli States dai produttori automobilistici comunitari. A tremare è in particolare la Germania, che in tempi di protezionismo montante sta scoprendo sulla propria pelle come sia un vulnus economico essere così tanto - troppo? - export oriented. Gruppi come Bmw, Volkswagen e Mercedes vendono negli Usa 470mila auto: dazi alle stelle costerebbero ai produttori tedeschi 5 miliardi, derivanti da un crollo del 50% dei ricavi negli Stati Uniti. Berlino deve quindi fare il tifo per la National automobile dealers association (ovvero i concessionari a stelle e strisce), convinta che la ritorsione trumpiana sarebbe un boomerang capace di distruggere 366mila posti di lavoro a causa del rincaro dei prezzi delle auto (mediamente 2.750 dollari in più) che provocherebbe un calo annuo di 1,3 milioni delle immatricolazioni. Angela Merkel, che lo scorso sabato aveva ammesso di non riuscire a capire la connessione fra le importazioni di auto e la sicurezza nazionale, rischia insomma di avere un'altra bella gatta da pelare nella fase terminale del suo mandato. E proprio nel momento in cui il Paese, evitata per un soffio la recessione, deve comunque fare i conti con la netta frenata dell'economia e con problemi del settore bancario così seri da richiedere l'intervento del governo.
Se Berlino piange, Londra non ride.
Il colosso automobilistico giapponese Honda intende chiudere il suo stabilimento di Swindon nel 2022 mettendo a rischio 3.500 posti di lavoro. Dietro la scelta ci sarebbero anche le incertezze legate alla Brexit, anche il gruppo nipponico parla di una scelta legata a un piano di riorganizzazione.
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