Draghi dà un'altra scossa alle Borse

Milano torna ai livelli del 2011, record storico a Francoforte. E l'euro scende sotto 1,05 dollari

Aveva ragione Mario Draghi: funziona, eccome se funziona. Il quantitative easing lanciato all'inizio della scorsa settimana dalla Bce (acquistati titoli pubblici per 9,75 miliardi di euro tra lunedì e mercoledì) sta producendo effetti sempre più visibili sui mercati, complice anche quello che tecnicamente viene chiamato decoupling . Ovvero: mentre l'Eurotower sta esprimendo il massimo dello sforzo nell'opera di allentamento monetario, la Federal Reserve - dopo la fine del proprio Qe nel novembre scorso - si muove in direzione opposta.

Le aspettative dei mercati sono infatti tutte orientate verso un rialzo dei tassi Usa abbastanza ravvicinato. Non a caso, lo spread tra i T-bond Usa e il Bund tedesco si è allargato fino a 200 punti, ovviamente anche a causa del Qe di Draghi che sta appiattendo la curva dei rendimenti. Così, a uno spostamento dei flussi d'investimento dall'obbligazionario europeo a quello statunitense, corrisponde un afflusso di fondi sulle Borse europee. Anche se ieri Wall Street ha risollevato la testa (+1,3% alle 21 ora italiana), il Dow Jones è appena sopra i livelli d'inizio anno. Al contrario, Piazza Affari ha accumulato un +20% da gennaio e ieri il Ftse Mib ha superato quota 23mila prima di chiudere a 22.930 punti (+0,96%); e Francoforte, volata oltre i 12mila punti (+2,2%), ha stabilito un nuovo record. Miglioramenti destinati a impattare sulla crescita di Eurolandia. Draghi ha parlato ieri di «una ripresa sostenibile che sta prendendo campo», grazie a un aumento della fiducia di imprese e famiglie e al miglioramento del credito bancario. «Ma questo non significa che possiamo cullarci sugli allori», ha poi ammonito, sottolineando l'importanza di portare avanti quelle riforme che non vengono disincentivate dal Qe. Lo dimostra l'Italia, che «ha introdotto un'importante riforma del mercato del lavoro quando la Bce ha annunciato le sue misure più recenti».

È evidente che una mano alla crescita la sta dando la forte svalutazione dall'euro, sceso ieri durante la seduta fino a 1,0456 dollari. È il livello minimo da 12 anni, ma la sensazione è che presto il rapporto tra le due valute possa tornare ad allinearsi perfettamente. Molto dipenderà dalla Federal Reserve, che tiene in mano il boccino valutario: domani, al termine della riunione del Fomc (il braccio operativo di politica monetaria), potrebbe venire rimosso il termine «paziente» con cui finora l'istituto di Washington ha segnalato la non imminenza di un aumento dei tassi. Per la numero uno Janet Yellen, quella di domani è una «finestra» di comunicazione fondamentale, visto che in aprile non è prevista alcuna conferenza stampa dopo il meeting dei governatori. E la Fed, allo scopo di rassicurare il mercato, ha sempre voluto motivare le proprie scelte, non affidandole unicamente all'asettico comunicato ufficiale diffuso al termine delle riunioni del board. Se davvero ci sarà un cambio di linguaggio, la stretta potrebbe arrivare in giugno. Di sicuro la banca Usa procederà con i piedi di piombo, calibrando gli interventi - aumenti del costo del denaro non superiori a uno 0,25% per volta - sulla base dell'andamento dell'economia, con particolare attenzione allo stato di salute del mercato del lavoro.

In effetti, qui sta il punto più controverso: mentre il tasso di disoccupazione è sceso in febbraio al 5,5%, la crescita delle retribuzioni non sta assecondando questo andamento e l'inflazione è molto al di sotto del target del 2%. La Yellen potrebbe, quindi, essere indotta a temporeggiare ancora.

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