Sul candido piumaggio da colomba della Bce compare una screziatura da falco. La trasferta di Tallinn marca infatti la prima discontinuità rispetto all'ortodossia consolidata: dopo mesi, sparisce dal comunicato finale diffuso ieri la formula con cui si indicava la possibilità di «tassi più bassi». D'ora in poi, salvo sciagure, i movimenti saranno solo al rialzo. Non è però il primo atto di un processo di normalizzazione ancora tutto da definire: è solo l'unica concessione che Mario Draghi concede all'ala dura del board, Bundesbank in primis, non potendo negare l'evidenza. Ovvero, che è «scomparso definitivamente il rischio di deflazione». Ma la strategia di base non cambia, al punto che «non c'è stata una discussione sulla normalizzazione» della politica monetaria, precisa il presidente della banca centrale.
Il «Tapering file», cioè il dossier sul ritiro dalle misure non convenzionali, deve ancora essere aperto. Nemmeno abbozzati, tempistiche e ruolini di marcia. Bocce ferme. E Draghi fa intendere che così resteranno ancora per parecchio. Insiste anzi, l'ex governatore di Bankitalia, sulla necessità di mantenere un atteggiamento «molto accomodante». Insomma: nessuna volontà di deporre il bazooka del quantitative easing, che resterà carico con le sue munizioni da 60 miliardi di euro al mese fino alla fine dell'anno. «O anche oltre, se necessario» e «in ogni caso finchè il direttivo non riscontrerà un sostenuto aggiustamento dell'andamento dell'inflazione in linea con i suoi obiettivi». Il bastione del Qe resta quindi ben saldo, al punto da far apparire come un contentino il floor posto sui tassi, al momento a zero quelli principali di rifinanziamento, a -0,40% quelli sui depositi overnight e a 0,25% quelli di rifinanziamento marginale.
È del resto improbabile che la stretta sul costo del denaro anticipi l'azione di smantellamento del piano di acquisto titoli. E differire il rialzo dei tassi significherebbe aiutare l'Italia, in ritardo nell'aggiustamento dei conti e nelle riforme strutturali. Non a caso, la conferma che il Qe non va verso lo smantellamento (unita all'allontanarsi del voto anticipato) ha provocato ieri un arretramento dello spread tra Btp e Bund a 191 punti e un calo del rendimento del decennale al 2,17%. Draghi ha ancora una volta negato l'accusa di far favoritismi («Il nostro mandato riguarda la stabilità dei prezzi, non il sostegno ai bilanci dei governi»), ma ha anche avvertito che «i Paesi con posizioni di bilancio deboli, crescita debole e mancanza di riforme strutturali, saranno più toccati da un possibile aumento dei tassi. L'elemento chiave è resuscitare la crescita».
A livello generale, l'eurozona sta comunque meglio rispetto a qualche mese fa. L'espansione economica è «solida e ben diffusa». L'Eurotower ha infatti ritoccato al rialzo le stime sul Pil, destinato a salire del 2% quest'anno, dell'1,8% il prossimo e dell'1,7% nel 2019. Percentuali già buone e perfino migliorabili (la ripresa «può accelerare più di quanto previsto»); ciò che ancora non convince è l'inflazione. Qui le previsioni sono state tagliate al ribasso: 1,5% per il 2017, 1,3% per il 2018 e 1,6% per il 2019. Draghi non è soddisfatto: spiega che l'inflazione di fondo resta debole», a causa del ribasso dei prezzi dell'energia e di aumenti salariali insufficienti.
Ma è proprio questa debolezza che finisce per rafforzare la tesi di quanti ritengono - lui per primo - ancora necessaria l'azione di stimolo monetaria all'interno di un'unione monetaria «fragile anche perché è incompleta», da rafforzare anche «con l'unione bancaria».
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