Nella riunione di oggi della Bce, Mario Draghi non sarà il solo a celebrare idealmente i due anni esatti di vita del quantitative easing. I pesi all'interno del board dell'Eurotower vedono infatti la bilancia pendere ancora decisamente dalla parte di chi è favorevole al mantenimento del piano di acquisto titoli da 80 miliardi al mese (60 da aprile) almeno fino alla fine di dicembre.
Ma il dibattito sul finis vitae delle misure di stimolo straordinarie è più che mai aperto ed è alimentato da quanti - la Bundesbank soprattutto - sostengono che il Qe abbia ormai raggiunto gli obiettivi che si era dato. I tedeschi non hanno tutti i torti, pur non avendo completamente ragione. Varato con grande ritardo rispetto alle altre principali banche centrali proprio a causa dell'opposizione dei falchi e dopo che nè l'azzeramento dei tassi, nè i prestiti a pioggia (Ltro e Tltro) concessi alle banche avevano sortito effetto, il Qe ha permesso di sconfiggere lo spettro della deflazione e di consolidare la crescita economica, superiore lo scorso anno a quella Usa (+1,7% contro +1,6%), anche se ancora in forma disomogenea. L'Italia dello zero virgola ne sa qualcosa. Inoltre, l'anticonvenzionale bazooka della Bce ha prodotto il più convenzionale degli effetti: una svalutazione competitiva vecchio stampo, un boost per le merci dell'euro zona, un dito nell'occhio di Donald Trump, il primo a lamentarsi ruvidamente di quel 20% guadagnato dal dollaro rispetto alla moneta unica fino al punto di accusare la Germania di sfruttare gli Usa per mezzo di un marco travestito da euro. Ma il vero miracolo compiuto da quello che Draghi ha più volte definito «un successo», è stato il sostanziale azzeramento delle tensioni sui debiti sovrani. Non più elemento di terrore, lo spread si è normalizzato per effetto dei massicci acquisti di bond pubblici della banca centrale. Draghi ha così potuto tenere in piedi Eurolandia, chiamata però quest'anno a reggere le possibili onde d'urto alle sue fondamenta che potrebbero arrivare dalle elezioni in Francia, Olanda e Germania. Un motivo in più per non cambiare la rotta della politica monetaria nei prossimi mesi.
Ma, al tempo stesso, la strategia ultra-accomodante della Bce ha prodotto qualche effetto collaterale non proprio desiderato. Se da una parte i tassi a zero (o sottozero, come nel caso di quelli sui depositi presso la banca centrale) hanno complicato la gestione patrimoniale dei fondi pensione e delle compagnie assicurative oltre a ridurre i margini di redditività delle banche, dall'altra lo scudo garantito dal Qe ha indotto alcuni governi a differire quelle riforme strutturali più volte sollecitate dallo stesso Draghi per ridare competitività al sistema-Paese e a non affrontare con urgenza il nodo del debito pubblico. Un immobilismo che potrebbe essere pagato a caro prezzo non appena la Bce avrà ritirato tutte le misure emergenziali.
Prima che ciò accada dovrebbero passare ancora parecchi mesi. Il ritorno in febbraio dell'inflazione al 2% non sembra motivo sufficiente per cominciare a pianificare il tapering, visto che quella core, cioè al netto dei prezzi di energia e generi alimentari, è ancora fredda (0,9%).
Non è escluso che Draghi lo ricordi oggi in conferenza stampa. Ma se il presidente eviterà di menzionare la possibilità di estendere il Qe, «se necessario», oltre la fine del 2017, vorrà dire che l'Eurotower sta cominciando a pensare di tirare i remi in barca.
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