Il fantasma di Lehman ancora tra noi

La Grande crisi potrebbe ripetersi? Difficile, ma non impossibile: troppi debiti e derivati

Il fantasma di Lehman ancora tra noi

Il 15 settembre 2008 chi passa davanti al 119 di Liberty Street, nei pressi di Times Square, a New York, si imbatte in una mesta processione: tenendo nelle mani gli scatoloni gonfiati dai ricordi di una carriera al capolinea, i dipendenti di Lehman Brothers stanno abbandonando la nave colata a picco. La più piccola tra le banche d'affari Usa è fallita. Morta. Nessuna l'ha voluta salvare: non le più importanti istituzioni creditizie del Paese; né l'amministrazione Bush; e neppure la Federal Reserve. A condannarla, una liquidità ormai inesistente e la valutazione gonfiata degli asset in bilancio. La merchant è rimasta impigliata nel gioco mortale dei mutui subprime: diventerà non solo l'icona di quei disastri epocali destinati a generare la Grande recessione, ma anche l'unica vittima sacrificale. Altre big della Corporate America, altrettanto scricchiolanti, se la cavano: Merrill Lynch finisce sotto l'ala di Bank of America, per Aig si apre il paracadute dei fondi pubblici e Bear Stearns evita il precipizio grazie a JP Morgan.

Al resto, ci pensa una Fed che fino a qualche mese prima, attraverso il suo presidente Ben Bernanke, era impegnata in un «sopire, troncare» di manzoniana memoria. Lo scopo è chiaro: evitare il panico ridimensionando la portata del virus. Una visione miope che porta a una reazione lenta malgrado Wall Street vacilli sotto l'onda delle vendite. Gli interventi radicali arriveranno a fine 2008 con il primo round di quantitative easing. Lì, in un profluvio di acronimi (Zirp, Nirp, Tarp, ecc.) che esprimono la liquidità monstre iniettata nel sistema, la banca centrale Usa prende in mano il pallino. Non lo mollerà più, neanche a recessione domata. E quell'interventismo, poi imitato da Bce, Bank of Japan e Bank of England, si porterà dietro negli anni l'accusa di aver creato sui mercati una sorta di moral hazard.

Ma a distanza di un decennio, vissuto anche dall'Italia sotto il fuoco incrociato della crisi del debito sovrano e della crescita negativa, la domanda da porsi resta una: può ripetersi, quel disastro? Proprio ieri il presidente della Fed di St. Louis, James Bullard, ha detto che «difficilmente» la prossima crisi finanziaria nascerà dalle banche. Non ha tutti i torti. Rispetto al 2008, il settore è stato reso più resiliente agli choc attraverso il rafforzamento dei requisiti patrimoniali. Soprattutto nella parte relativa al leverage ratio, cioè il livello assoluto di indebitamento. Negli Usa, tuttavia, con l'arrivo di Donald Trump sono già state allargate le maglie che grazie al Dodd-Frank Act avevano vincolato gli istituti a un comportamento più prudenziale. Inoltre, le banche americane (e non solo) non hanno perso il vizietto di giocare proprio con lo strumento che ha fatto da detonatore allo bomba dei subprime: ovvero i derivati, il cui ammontare supera i 220mila miliardi di dollari, 12 volte il Pil americano, ed equivale praticamente all'ammontare dell'indebitamento a livello mondiale.

Scompensi di questa entità sono un rischio. Ma lo sono anche pratiche come i buy-back, agevolati da politiche monetarie accomodanti, che hanno finito per inflazionare le quotazioni dei titoli e garantire così ricchi bonus e dividendi. Negli ultimi anni, inoltre, non si è accorciata la forbice tra economia reale e finanziaria. A fronte delle mille luci del Luna Park di Wall Street, i salari compressi nella classe media e la precarietà diffusa (un problema in tutto il mondo) hanno concorso a portare Trump alla Casa Bianca. Difficile dire se il pericolo di un deragliamento dell'economia globale sia oggi portato dal protezionismo di The Donald, oppure dalla Cina o dalle sofferenze dei Paesi emergenti.

L'esperienza maturata in questi 10 anni post-crisi dovrebbe per lo meno servire, in caso di emergenza, a far scattare una tempestiva azione di pronto intervento. Che, ancora una volta, vedrà le banche centrali impegnate in prima linea.

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