Aveva cominciato bene, Jerome Powell, ieri davanti al Congresso Usa: «Ulteriori graduali aumenti dei tassi promuoveranno al meglio il raggiungimento di entrambi i nostri obiettivi». Il termine «graduali» è per i mercati come la coperta di Linus: morbida e rassicurante, l'ancora cui aggrapparsi alla bisogna. Il problema è che, a un certo punto della sua testimonianza, il neo-presidente della Federal Reserve si è lasciato sfuggire una frase hawkish, da falco: «La mia visione sull'economia Usa si è rafforzata da dicembre». Come dire: ci sono gli spazi per aggiustamenti più restrittivi della politica monetaria. Questa, almeno, è stata l'interpretazione delle Borse, con i listini europei in frenata proprio sul finale (in stallo Milano), Wall Street in calo delllo 0,4% a un'ora della chiusura, l'euro sceso sotto 1,23 dollari e il petrolio scivolato sotto i 63 dollari il barile. Ma l'effetto più vistoso delle parole del successore di Janet Yellen è stato la salita dei rendimenti dei Treasury a 10 anni, balzati al 2,904% dal 2,862% di lunedì.
Il tema della cosiddetta normalizzazione del costo del denaro americano è cruciale. L'ipotesi di quattro giri di vite quest'anno è stata infatti l'innesco delle violente correzioni degli indici mondiali nel mese di febbraio. Powell non ha voluto ieri indicare nè il timing nè l'entità delle strette, motivando la volontà di tenere le carte coperte con l'intenzione di «non condizionare le nuove proiezioni» che i vari membri del Fomc presenteranno nella prossima riunione della banca centrale Usa, in calendario il 20 e 21 marzo prossimi. È tuttavia molto probabile che Powell battezzi la sua prèmiere da nuovo capo di Eccles Building proprio con un rialzo dei tassi da un quarto di punto. Le condizioni sembrano esserci tutte: l'inflazione, «frenata da fattori temporanei», sta convergendo verso il target del 2% «dato che anche gli aumenti dei salari accelerano». E un ulteriore impatto sui prezzi arriverà dalla riforma fiscale approvata prima di Natale, visto che «dovrebbe portare a maggiori investimenti, che dovrebbero portare a una maggiore produttività, che a sua volta dovrebbe portare a salari più alti».
Evviva Trump, quindi? Non proprio. «Gli Usa non sono su strada fiscale sostenibile. È molto importante che il governo la ritrovi», ha ammonito Powell. Che sa benissimo come tagli alle tasse per 1.500 miliardi di dollari in 10 anni, e un piano di rilancio infrastrutturale ancora più ambizioso sotto il profilo finanziario, ricadranno sul già malmesso deficit a stelle e strisce. Il Tesoro sarà infatti costretto ad aumentare le emissioni di debito, nonchè a offrire condizioni via via più onerose con l'aumentare dei tassi. Da qui l'invito del presidente della banca centrale Usa al Congresso ad alzare il tetto del debito, il limite oltre il quale Washington non può emettere nuovi bond. «Un default degli Stati Uniti avrebbe conseguenze pesanti», ha detto.
Una cosa è certa: lo spread tra il costo del
denaro Usa e quello dell'eurozona è destinato ad allargarsi ulteriormente quest'anno. La conferma è arrivata dal numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann: «Le attese di un rialzo dei tassi nel 2019 non sono irrealistiche».
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