Rodolfo PariettiLa Federal Reserve esce dalla politica dell'emergenza imposta dai cascami tossici della recessione e, finalmente, decide: i tassi salgano di un quarto di punto, a 0,25-0,50%, prima stretta dal giurassico giugno 2006, primo step che libera Eccles Building dalla camicia di forza del denaro troppo cheap e sancisce, ufficialmente, la divergenza strategica rispetto alla Bce, impegnata ancora in misure di allentamento quantitativo.Il rialzo «segna la fine di un periodo di 7 anni fuori dall'ordinario», sottolinea la presidente della Fed, Janet Yellen. Non è, quello della banca centrale Usa, il risveglio della forza monetaria. E non avrebbe potuto essere diversamente: nè gli Usa, nè l'economia globale avrebbero potuto reggere un giro di vite robusto. Una manovra invece inevitabile «se il comitato avesse rimandato troppo a lungo» la normalizzazione della politica monetaria, che ora «andrà via liscia». «Le condizioni economiche si evolveranno in un modo tale da garantire solo aumenti graduali» dei tassi, viene infatti messo nero su bianco nel comunicato diffuso ieri. Toni dovish, da colomba. Si procederà coi piedi di piombo. È ciò che i mercati volevano sentire. Anche perché resta aperta l'opzione di una rapida retromarcia nel caso la situazione dovesse peggiorare. «Le prossime mosse dipenderanno dai dati economici», puntualizza infatti la Yellen. Qualche indicazione sulla futura tabella di marcia? La si può ricavare dal sondaggio tra i membri del direttivo Fed, che vedono come «appropriato» un costo del denaro all'1,375% a fine 2016, al 2,375% a fine 2017 e al 3,25% a fine 2018, con un obiettivo di medio termine del 3,5%. Stime, ovviamente, da prendere con le molle. Per amplificare l'effetto di quel +0,25%,la Fed ha inoltre avviato un «overnight reverse repurchase program» (On Rrp), per ora limitato a 300 miliardi, allo scopo di drenare altra liquidità. A sostegno della decisione, ampiamente scontata dalle Borse (Wall Street ha reagito con un +1% a un'ora dalla chiusura), la banca centrale americana ha squadernato le sue ultime stime, che prevedono una maggiore crescita del Pil e una più bassa disoccupazione, visti ora rispettivamente al 2,4% e al 4,7% nel 2016 (+2,3% e 4,8%, l'outlook precedente). Invariate le stime sul 2015 (Pil +2,1%, disoccupazione al 5%) e sul 2017 (+2,2% e 4,7%), mentre per rivedere un'inflazione al 2% occorrerà aspettare il 2018. Sui prezzi, la Yellen è stata chiara: «Non serve aspettare un'inflazione al 2% per un'altra stretta». E seppure il ribasso del petrolio sia stata «una sorpresa», «penso ci sia un limite al di sotto del quale le quotazioni difficilmente scenderanno». E i rischi globali, in particolare quelli dai Paesi emergenti e dalla Cina? «Persistono», ha ammesso la Yellen, ma l'economia Usa «si è considerevolmente rafforzata» da poter resistere a eventuali contraccolpi. «Non sono preoccupata per una nuova recessione».Di sicuro, la mini-stretta avrà ripercussioni a largo spettro. Alcune ampiamente prevedibili, a cominciare dal rafforzamento del dollaro (l'euro è sceso ieri quota 1,09), che dal giugno 2014 si è già apprezzato del 24% sulle altre valute.
Nell'immediato, il rafforzamento del biglietto verde manderà in sofferenza i Paesi emergenti, che già hanno visto sensibilmente calare i flussi di investimento quest'anno (66 miliardi contro i 285 miliardi del 2014). L'America dovrà inoltre mettere in conto maggiori difficoltà nelle esportazioni, e qualche grattacapo potrebbero averlo le aziende con l'emissione di bond, mentre i margini delle banche sono destinati ad aumentare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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