È un po' come il vecchio dilemma sull'uovo o la gallina: meglio una Fed colomba oggi, oppure domani? A giudicare dalle reazioni dei mercati azionari allo scontatissimo rialzo dei tassi Usa deciso mercoledì sera, pare che non ci siano dubbi su quale sia stata la risposta. Vedere Piazza Affari riagguantare con un +1,7% quella quota 20mila persa nel gennaio 2016 fa già un certo effetto, nello stesso giorno in cui lo spread Btp-Bund risale a 190 punti. Ma i rialzi hanno riguardato tutti i mercati europei, peraltro sollevati dall'esito delle elezioni olandesi, mentre Wall Street si è messa in stand-by dopo i guadagni dell'altroieri.
Gli esperti tendono a mettere in relazione i rialzi con l'atteggiamento più dovish del previsto della banca centrale americana. In parte è vero. La presidente Janet Yellen ha usato il bilancino del farmacista per dosare le parole, nel tentativo - a quanto pare riuscito - di non risultare aggressiva. La ribadita necessità di procedere in modo graduale con le prossime strette è di per sè indice di un atteggiamento ancora accomodante. Confermato anche dalle proiezioni del board, secondo cui da qui alla fine dell'anno i giri di vite al costo del denaro saranno due. Al massimo. Uno verosimilmente in giugno, l'altro in dicembre. Dunque, neanche l'ombra di quell'accelerazione violenta del processo di normalizzazione della politica monetaria temuta dai mercati. Quegli stessi mercati che, incassato il dividendo inatteso di una Yellen col piumaggio da colomba, non sembrano tuttavia interrogarsi a sufficienza sui motivi del comportamento della Fed. Dal quadro macroeconomico che la stessa Yellen ha illustrato ci sarebbero state infatti le condizioni per assumere un atteggiamento più da falco: l'inflazione è considerata sotto controllo nonostante la fiammata (+1,7%) di febbraio; il mercato del lavoro è in una situazione di quasi piena occupazione; tengono gli investimenti delle imprese e la spesa dei consumatori; e non ci sono bolle pronte a scoppiare. In generale, ha sottolineato il successore di Ben Bernanke, gli americani «possono avere fiducia nell'outlook economico» e anche l'istituto centrale «ha fiducia nel fatto che l'economia è robusta e resistente agli choc».
Di fronte a uno scenario così rassicurante, corroborato dalle ultime stime su crescita e inflazione, perché allora tanta cautela, resa peraltro evidente dalla decisione di rinviare ancora la riduzione del bilancio? Le incognite legate agli effetti della Trumponomics sul ciclo economico possono già essere una risposta. Ma Eccles Building è forse anche preoccupata dall'indebolimento congiunturale. Lo si vede dalla modesta espansione del Pil nel primo trimestre, un +0,9% - secondo le stime della Fed di Atlanta - che è il peggior risultato dagli anni Ottanta; e lo si vede dalla doppia contrazione, tra gennaio e febbraio, dei salari reali, mai una buona cosa in presenza di un'inflazione crescente. E ieri è arrivata la notizia che l'indice Philly Fed, il termometro della situazione manifatturiera Usa, si è schiantato in marzo crollando dai 43,3 punti di febbraio a quota 32,8. Un altro cattivo segnale.
A detta di alcuni analisti ci sarebbero i prodromi di una stagflazione, un mostro ancor più difficile da debellare della deflazione.Insomma: mostrandosi più colomba del previsto, la Fed ha implicitamente suggerito di essere pronta a correggere la rotta se la situazione dovesse peggiorare. I mercati dovrebbero cominciare a tenerne conto.
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