Economia

Il futuro non fa paura. A patto che…

La Mifid 2 rivoluzionerà il mondo della promozione finanziaria? Il dibattito tra i competitor del settore è aperto tra chi crede nell’evoluzione verso il fee only e chi nell’attuale sistema che ha fatto la fortuna degli operatori

Il futuro non fa paura. A patto che…

Un confronto serrato tra i principali competitor e le associazioni di categoria per fare il punto sul presente e futuro della promozione finanziaria. Anche quest’anno il convegno organizzato da BancaFinanza a Rimini, nell’ambito dell’It Forum, si è confermato appuntamento di riferimento per parlare dei destini della distribuzione finanziaria, come dimostrano gli oltre 600 tra professionisti e operatori del risparmio gestito presenti all’evento. Il convegno è stato dedicato al tema Promotori finanziari e consulenza e ha avuto relatori come Mauro Albanese, direttore commerciale di Finecobank; Maurizio Bufi, presidente di Anasf; Massimo Doris, amministratore delegato di Banca Mediolanum; Armando Escalona, amministratore delegato di Finanza & Futuro Banca; Pietro Giuliani, presidente e amministratore delegato del gruppo Azimut; Mario Incrocci, responsabile nazionale rete di Banca Mps; Gianmaria Mossa, responsabile direzione marketing, sviluppo commerciale e private di Banca Fideuram; Piermario Motta, amministratore delegato di Banca Generali; Marco Tofanelli, segretario generale di Assoreti. Il convegno, che è stato introdotto da Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza e moderato dal giornalista Marco Muffato, ha affrontato temi cruciali per lo sviluppo del comparto: l’impatto della Mifid 2 sulla promozione finanziaria e le strategie delle reti distributive a fronte dei prossimi cambiamenti imposti dalla direttiva europea sui servizi d’investimento, il ruolo crescente dell’architettura aperta; quale spazio può avere la consulenza a pagamento sul mercato. E inoltre, il nodo del ricambio generazionale per una categoria, quella dei pf, che sta invecchiando molto; il ruolo (che cambia) delle strutture manageriali.

Mifid Review Che cosa accadrà per il settore della promozione finanziaria con l’avvento della Mifid 2 o Mifid Review? La previsione della Commissione europea, in sede di prima stesura del nuovo testo normativo, di una consulenza indipendente remunerata esclusivamente dal cliente e riservata agli intermediari accanto alla possibilità di erogare una consulenza restricted con il tradizionale sistema di remunerazione legato alle commissioni, sarà confermata nel testo finale della direttiva? Sul tema hanno fatto chiarezza i rappresentanti delle associazioni di categoria che stanno seguendo l’iter che porterà all’approvazione del parlamento europeo della seconda versione della direttiva europea sui servizi d’investimento entro il 31 dicembre 2012. Per Tofanelli, finora «si è fatta una grande confusione con la regolamentazione del mercato anglosassone, la Rdr (che entrerà in vigore dal 1 gennaio 2013, ndr), che ha introdotto il concetto di consulenza indipendente e ristretta e quanto poi si andrà ad attuare in Europa. Dove il concetto di consulenza ristretta contrapposto alla consulenza indipendente non esiste». Secondo il segretario di Assoreti, infatti, «la consulenza è una norma di comportamento, cioè una raccomandazione adeguata al profilo del cliente e per questa ragione non può che essere indipendente. Ed è quello che abbiamo contestato rispetto alla disciplina inglese e alla prima proposta della commissione». Difficilmente, prosegue Tofanelli, la seconda versione della direttiva sconvolgerà il modello della promozione finanziaria così come si è consolidato sino a ora. «Nei tre testi della commissione, del parlamento e del consiglio europeo, in nessun caso si parla della indipendenza come unica forma di consulenza, che sarà solo una delle modalità di prestazione del servizio. Non vedo, pertanto, grandi evoluzioni rispetto a quanto previsto dalla normativa in vigore», ha concluso il segretario generale di Assoreti. Il mondo della promozione finanziaria, quindi, tira un sospiro di sollievo. Bufi ha spiegato infatti che «se il concetto di consulenza indipendente fosse passato nei termini previsti nell’iter iniziale della Mifid Review, avrebbe determinato di fatto una consulenza di serie A, quella indipendente, e una di serie B, quella restricted, ed era una interpretazione che non ci convinceva. Sicuramente migliore», ha proseguito il presidente dell’Anasf, «è il testo proposto dal parlamento europeo che pone invece l’accento su obblighi di trasparenza aggiuntivi per gli intermediari e che ci sembra la via più logica da seguire ed è coerente con il punto di vista espresso dall’Anasf attraverso il Fecif (The European federation of financial advisers and financial intermediaries, ndr) di cui è componente. Ci auguriamo davvero che dalla Mifid Review emergano regole che salvaguardino l’attuale modello, che favorisce e premia l’immagine del promotore finanziario». Consulenza indipendente o ristretta? In attesa di capire cosa comporterà davvero la Mifid Review e se cambierà il settore sul comparto della distribuzione finanziaria nei prossimi anni, va evidenziato come il tema della consulenza finanziaria indipendente e a parcella divide gli operatori tra favorevoli e contrari. Partiamo dai secondi. Giuliani, per esempio, liquida il tema così. «La consulenza? Ognuno di noi la fa tutti i giorni: non si può fare il nostro mestiere senza avere un approccio consulenziale. Per quanto riguarda la consulenza a pagamento (separata dal collocamento, ndr), Azimut ne rivendica la primogenitura. Ricordo che nel 1990 i miei clienti facevano pagare al cliente una parcella e con mia meraviglia, perché era la prima volta che vedevo un servizio del genere offerto nel settore». «Detto questo», continua Giuliani, «il servizio rimane in una fase pionieristica e si affermerà solo quando il mercato sarà pronto. Quando avremo clienti pronti a pagare per un servizio che la maggioranza dell’industria offre ancora gratuitamente, allora sì che ci sarà spazio. Per il momento continuiamo a fare consulenza pur non facendola pagare esplicitamente». Per Massimo Doris «in un primo tempo sembrava che il legislatore comunitario volesse forzare le aziende ad andare verso la consulenza fee only. Un approccio che non mi trovava d’accordo, perché deve essere il mercato e quindi il cliente a decidere come deve essere servito. Peraltro, ritengo la consulenza fee only applicabile solo nei casi dei clienti da altissimi patrimoni, non certo per quellti con disponibilità da 50 mila fino 200 mila euro che sono asset troppo limitati per applicare questa fee. Se il mercato decreterà che questo sistema permette di stare con successo su questo mercato, naturalmente Banca Mediolanum si adeguerà. Dal mio punto di osservazione, però, vedo che a imporsi ancora è la consulenza restricted». Fuori dal coro Albanese, deluso per la probabile mancata affermazione della consulenza indipendente all’interno della nuova versione della Mifid. «Sono perplesso per la posizione dei colleghi sul tema. L’eliminazione della consulenza indipendente, se confermata nella versione finale di Mifid 2, sarà una occasione persa. Questo sia per non poter aumentare la qualità del servizio reso al cliente, sia in generale per l’intero sistema della promozione finanziaria in quanto il pf è il professionista più indicato per utilizzare un approccio di pianificazione finanziaria davvero libero dal conflitto d’interesse». Ma non è che con la consulenza finanziaria fee only reti e promotori guadagnino di meno che con il sistema tradizionale? L’esperienza di Finecobank smentirebbe il pregiudizio. «Con il fee only», sottolinea Albanese, «abbiamo già accumulato due miliardi di asset forti di un approccio libero dal conflitto d’interesse. E il promotore guadagna lo stesso importo se utilizza Etf, titoli governativi o fondi comuni di investimento. Questo è un aspetto importante e un ulteriore elemento di garanzia per il cliente». «Ritengo che la consulenza fatta in un certo modo esalti il lavoro dei professionisti della promozione finanziaria», dice Escalona, «e sia coerente con il dna della professione visto che i promotori, alla nascita, erano denominati consulenti finanziari; poi a inizio degli anni Novanta il legislatore ha imposto al nostro settore di fare solo promozione ma con la Mifid abbiamo recuperato in maniera esaltante l’aspetto della consulenza. E ora disponiamo di un sistema normativo che consente a tutti di lavorare secondo quelle che sono le propensioni: il pf può scegliere l’azienda dove può fare meglio, seguendo un progetto più adatto alle proprie caratteristiche».Chi vincerà? «Sarà il mercato che stabilirà il vincitore, l’importante che tutti noi ci comportiamo in maniera seria, professionale e trasparente per consentire al risparmiatore di fare le sue scelte». «Non è vero che sarà il mercato a decidere se si andrà verso il fee only o la restricted», ribatte Motta. «Sarà, invece, il legislatore a decidere: noi ci dovremo adeguare e dovremo farci trovare pronti a eventuali novità». E una teorica previsione della consulenza fee only potrebbe «rendere tutto più complicato per il nostro settore. Perché una cosa è sapere di poter contare su delle commissioni generate dai rebate delle società di prodotto, altra cosa è il dover argomentare e richiedere la commissione a latere del servizio di consulenza». Mossa ritiene invece che la Mifid Review debba essere un rafforzativo della prima versione della Mifid «cercando di favorire una maggiore trasparenza nel pricing e nella catena del valore, costituita da produzione e distribuzione, e chiarendo al cliente quanto paga e cosa paga; inoltre, si propone di segmentare un po’ di più i diversi livelli di servizio. In linea generale credo che l’obiettivo sia sano, senza contare che la categoria dei promotori finanziari da questo contesto può solo trarne vantaggi». Secondo Incrocci «non c’è un promotore in Italia che non sarebbe felice di essere remunerato come un medico o un notaio. Purtroppo c’è un problema culturale del mercato, e mi riferisco non solo ai clienti ma anche alle stesse società mandanti, che vedono i promotori ancora come venditori. Se noi vogliamo parlare di parcella dobbiamo individuare le azioni per dare una credibilità diversa al promotore. Bisogna fare un'alleanza tra società mandanti e comprensiva di istituzioni come Assoreti e Anasf, per investire in modo massiccio sull’immagine della promozione finanziaria nel nostro paese e facendo capire ai nostri clienti che non siamo dei venditori di prodotti». Architettura (non sempre) aperta Negli ultimi dieci anni si è molto discusso sul ruolo del multibrand o dell’architettura aperta per sviluppare la capacità di servizio delle reti e il business del risparmio gestito. Ma questo principio del multimarca è stato effettivamente applicato dalle reti? Al di là delle decine di accordi distributivi con le case straniere di asset management c’è stato un effettivo superamento del rapporto di contiguità tra rete e società prodotto di casa? A giudicare dai dati (fonte Assoreti), dopo anni di crescita si sta assistendo a un brusco ridimensionamento del multibrand: nel 2011 l’incidenza dei prodotti di terzi sul totale è aumentata lo scorso anno di solo mezzo punto percentuale al 28,2% sul totale del patrimonio in prodotti finanziari. Negli anni precedenti il multibrand era passato dal 13,5 di fine 2005 al 27,6% del 2010, con un tasso di crescita dl 2,3% annuo di media. Ma secondo gli operatori l’architettura aperta non si sta dimensionando. Anzi. «Il problema mi sembra un po’ sopravvalutato. Dipende da come vengono effettuati i conteggi», evidenzia Motta. «Nel nostro caso, la stragrande maggioranza dei prodotti è gestita da casa terze, ma all’interno delle sicav di casa: quindi sono considerati prodotti gestiti da Banca Generali, mentre nei fatti non è assolutamente così». Punto di vista sul tema condiviso da Doris. «A osservare le statistiche risultano tutti prodotti Mediolanum ma, se si guarda al nostro portafoglio fondi, si vede che l’80% delle nostre masse è gestito da case terze». In linea anche Escalona. «Questo calo del multibrand non lo rilevo. Nel 2003 il patrimonio gestito era allocato al 100% in prodotti di casa, mentre la situazione attuale, anche per quanto riguarda la raccolta netta, è di 85% di terzi, forti degli accordi con una quindicina di case terze», afferma Escalona che aggiunge «Un po’ tutti stiamo facendo contenitori con all’interno prodotti multimarca: se il contenitore è assicurativo i vantaggi sono maggiori sia in termini di ampliamento dei prodotti finanziari inseribili sia in termini fiscali». Anche chi storicamente ha sempre puntato sulla propria gestione, come il gruppo Azimut, in questi ultimi anni si è aperto al multimarca. «Attualmente abbiamo il 30% di prodotti di case terze all’interno delle masse gestite», spiega Giuliani. «Prodotti multimarca che abbiamo prevalentemente inserito all’interno di contenitori con il nostro marchio. La presenza di prodotti di terzi all’interno di questi contenitori, selezionati da gestori professionisti, consente al promotore finanziario di dimostrare al cliente di aver adempiuto alla promessa di curare i suoi investimenti con le migliori soluzioni sul mercato». Anche Mossa sottolinea il crescente peso del multimarca sugli asset gestiti. «Negli ultimi quattro anni sono passati quasi 13 miliardi di euro da fondi di casa a fondi di terzi. Oggi i fondi di terzi pesano per il 70% contro il 30% dei fondi di casa sulle nostre masse gestite. L’apertura al multimarca, almeno per noi, è un falso problema». Assodato l’approccio multi manager, in Banca Fideuram si è trovata una soluzione interna al problema del monitoraggio delle case terze. «Abbiamo trasformato il nostro asset manager, che prima era una pura società di gestione, in una vera e propria società di servizi. Al cui interno lavorano 12 persone, che hanno il compito di selezionare e monitorare i migliori comparti con verifiche trimestrale sul loro andamento e la qualità gestionale». Le posizioni espresse sul tema non convincono Incrocci. «Da anni si parla di multibrand e multimanager, ma i dati dicono che c’è poca volontà di andare in questa direzione. Basterebbe osservare lo spaccato per azienda delle masse in prodotti domestici e di quelle in prodotti di case terze per capirlo. Come sarebbe interessante leggere con attenzione i contratti per vedere come varia la compensation e gli incentivi sui prodotti di gruppo rispetto a quelli di case terze. Anche quando sento parlare di fondi di fondi: sono prodotti di casa in cui dentro ci sono prodotti di terzi con delle sovracommissioni. Siamo in un business in cui bisogna guadagnare, ma bisogna consentire al promotore di lavorare in piena autonomia senza conflitto d’interesse e potendo contate sui migliori prodotti che ci sono al mondo. E soprattutto, se fossi un cliente, in presenza di migliaia di sicav, preferirei avere una analisi su 4 mila fondi anziché su quattro». Un'opinione contestata da Motta. «Non c’è nessuna spinta da parte delle società per inserire un fondo anziché un altro di terzi nelle gestioni. Siamo assolutamente neutri nell’inserire nei portafogli un fondo anziché un altro. Aggiungo che non possiamo incentivare fondi di casa rispetto a terzi perché è proprio la Mifid a proibirlo. Oggi l’apertura al multibrand è, invece, effettiva». Albanese invita a distinguere tra multibrand e architettura aperta. «Non tutti i fondi di fondi hanno le stesse caratteristiche. C’è chi sul mercato ha accordi con cinque o sei case terze blasonate, assegnando a ciascuna la gestione di un asset class. Nel nostro caso ragioniamo su base quantitativa inserendo nel contenitore tutti i migliori prodotti delle 60 case di gestione con cui abbiamo rapporti di collaborazione». Di certo l’avvento del multibrand è stato positivo per il promotore finanziario, come sottolinea Bufi. «Con il multibrand e l’architettura aperta si è rafforzato lo spessore professionale del promotore finanziario», sottolinea il presidente dell’associazione di categoria dei promotori. «Tanto più il pf è in grado di offrire un servizio più ampio in termini di offerta tanto più risponde alle esigenze del cliente». Infine, Tofanelli non esclude che «il dato controverso sul multibrand possa anche essere legato a una questione di classificazione. Ma, in ogni caso, il 30% di media di prodotti di terzi sul patrimonio gestito è significativo di come il mercato sia stato aperto dalle reti di promotori, la cui raccolta indiretta, oltre a dare forza al mercato del risparmio gestito, è finalizzata alla protezione del risparmio del cliente. Il tutto mentre la banca tradizionale rimane orientata alla raccolta diretta, cioè a collocare le obbligazioni di casa, per problemi di patrimonializzazione».

Non è un mestiere per giovani Un altro tema rilevante per lo sviluppo del settore è relativo al ricambio generazionale. Un problema che, negli ultimi anni, si è acuito vista la poca disponibilità a inserire nuove leve negli organici (si preferisce, infatti, puntare su professionisti più temprati alle turbolenze del mercato e soprattutto capaci di portare in dote cospicui portafogli della clientela). Non deve quindi sorprendere l’età media alta della categoria (sui 47 anni quella dei professionisti iscritti all’albo, secondo i dati Apf relativi al 2011: valore cresciuto di un punto percentuale rispetto al 2011). Cosa fare per invertire il trend e tornare a puntare sui giovani come un tempo? C’è una proposta di reintroduzione di una forma di tirocinio o praticantato recentemente lanciata dell’Anasf che non poteva lasciare indifferenti gli operatori. «Quello del ricambio generazione è un tema nevralgico per il nostro futuro», esordisce Bufi. «Se questa professione non trova al proprio interno nuove risorse professionali avrà poco futuro. Non sono più sensazioni, lo dicono i numeri: appena il 2% dei promotori effettivi ha meno di 30 anni. È un fenomeno che certamente coinvolge la società italiana, dove lo spazio per le nuove leve non è elevato, tuttavia bisogna fare qualcosa subito. La nostra proposta deve portare tutta l’industria a ragionare sul problema e poi a iniziative concrete: la reintroduzione del tirocinio piuttosto del praticantato permette di andare oltre la sola successione familiare come unico modo per sviluppare la professione. È un progetto che richiederà anni, dovranno essere individuati gli strumenti efficaci e i soggetti disposti a investire risorse economiche, visto che è illusorio pensare a un intervento pubblico». La proposta dell’Anasf non entusiasma Tofanelli che fa parte anche del comitato ristretto dell’Apf, l’organismo per la gestione dell’albo dei promotori finanziari. «In sede Apf, il tema del ricambio generazionale è stato trattato molte volte ed è partita una iniziativa per risolvere questo problema. Che non risiede tanto nell’accesso alla professione quanto nella fase immediatamente successiva, cioè nel rimanere in questa attività una volta iscritti all’albo.
Abbiamo varato una campagna di comunicazione e poi un processo di formazione messo a disposizione delle società che vorranno adottarlo. In passato il praticantato ingessò troppo il sistema e questa proposta, così come è stata presentata, può creare gli stessi problemi». Escalona dà un giudizio positivo alla proposta Anasf, anche se la vera soluzione del problema sarebbe facilitata dalla introduzione di studi professionali per i promotori. «Credo che la proposta Anasf sia positiva anche se non sufficiente: tutto il settore deve essere oggetto di una forte riflessione critica da parte degli operatori e delle associazioni di categoria», afferma Escalona. «Non basta facilitare l’accesso alla professione: bisogna creare un contesto nel quale, una volta superato l’esame, i neofiti possano operare, con una gamma di prodotti adatta a favorire una crescita professionale nel tempo, un tutor che li aiuti a gestire le situazioni più complesse con i clienti e un sostegno economico nei primi anni di attività. Ma tutto questo evidentemente costa e potrebbe essere risolto permettendo alle società di dare mandato anche a persone giuridiche. Creando, cioè, forme di studi associati, nei quali il neofita potrebbe inserirsi e crescere in un contesto regolamentato e tranquillo». L’idea che piace anche a Motta. «Lo studio associato potrebbe essere una buona soluzione per favorire i processi di ricambio generazionale», riflette Motta. «In tutte le libere professioni, il giovane entra in uno studio e affianca i professionisti, cresce come preparazione e incomincia a crearsi la sua clientela». Doris si dice possibilista sulla introduzioni di forme di praticantato purché non obbligatorie. «Sono aperto a soluzioni come il praticantato: l’importante è che non siano obbligatorie, che ingessino il mercato. Se il praticantato è il solo modo per entrare nella professione, ho i miei dubbi sulla sua attuabilità.
C’è chi, come Banca Fideuram, ha fatto un master e chi come noi ha creato una università al suo interno per dare una risposta al problema. Noi non abbiamo mai rinunciato a selezionare giovani, pur rinunciando ai neolaureati di 24-25 anni perché per quanto preparati non possono essere credibili di fronte al cliente e preferendo concentrarci sui giovani intorno ai 30 anni». Altri ostacoli all’ingresso dei giovani, aggiunge Incrocci, sono la riduzione dei margini e la necessità di buoni maestri difficili da reperire. «Nel 2000 si parlava del promotore come una delle professioni più ambite dai giovani e più accettate dal contesto sociale. C’era il boom di Borsa e il mercato era molto più semplice», ricorda Incrocci. «Ma ora non possiamo essere legati all’andamento delle Borse, anzi quando le Borse vanno male dovrebbe emergere una maggiore esigenza di avere a fianco il promotore finanziario. Cosa impedisce alle società di puntare sui giovani? Sia per le società, sia per i promotori i margini si sono ridotti a fronti di maggiori costi. Altro aspetto è che oltre alla formazione i giovani avrebbero bisogno di una intensa attività di addestramento sul campo con il supporto costante di un supervisore per uno o due anni, come avveniva un tempo. Ma quanti sono i manager capaci di fare un’attività di addestramento di questo tipo?».
Negli anni scorsi c’è chi ha puntato prevalentemente sui promotori di esperienza e oggi, consapevole del nodo del ricambio generazionale, incomincia a varare iniziative di apertura ai neofiti. «Abbiamo avviato un progetto denominato new generation, e rivolto a diverse decine di figli dei promotori finanziari che lavorano nelle società del gruppo e che sono formati da manager con la pazienza e l’attitudine al dialogo con i giovani», spiega Giuliani. «Familiari a parte, oggi abbiamo diversi promotori che accettano di farsi affiancare da giovani e a cui cedono i clienti più piccoli con cui fare esperienza». C’è chi come Mossa sostiene che le nuove generazioni guardino con maggiore simpatia alla professione di promotore finanziario che a quella di bancario. «Attraverso l’esperienza del master in consulenza finanziaria abbiamo accorciato le distanze tra il nostro mondo e quello universitario e quello che abbiamo constatato è che c’è un forte interesse da parte dei neolaureati a cercare alternative al tradizionale mondo bancario». Per Albanese ben vengano proposte come il praticantato ma sta alle aziende trovare una soluzione al problema del ricambio generazionale. «È vero che il mercato ci chiede risultati nel breve periodo. Ma noi ci stiamo provando con borse di studio ai neofiti per il superamento dell’esame, sostegno economico per i primi 12 mesi di attività, affiancamento sul campo. E stiamo affidando la tutorship a promotori senior con passione, mentre è bene che i manager continuino a impegnarsi a raggiungere i risultati commerciali. Stiamo studiando, infine, dei sistemi di riallocazione dei clienti molto marginali di promotori senior a beneficio dei giovani che entrano nella professione».

Quale futuro per i manager di rete Ma se i manager di rete non si caratterizzano più come coach dei nuovi talenti della promozione finanziaria, ciò non significa che il loro ruolo si sia indebolito all’interno delle organizzazioni. Anzi. Hanno semmai acquisito nuove competenze sul piano commerciale e del marketing. E chi un tempo ne faceva a meno ha giocoforza introdotto la figura del manager di rete al proprio interno. È il caso del gruppo Azimut, che ha previsto all’interno del proprio sistema, reti con il classico modello manageriale gerarchico. «Ci siamo resi conto che avere all’interno del gruppo solamente un modello estremamente differente da quello di altre reti ci creava dei problemi nella crescita. Per cui abbiamo introdotto al nostro interno il modello di rete piramidale con professionalità prese all’esterno, in modo da rendere più agevole l’ingresso nel gruppo ad altri promotori», argomenta Giuliani, concludendo che «è opportuno lasciare ai promotori la libertà di lavorare con i modelli che preferiscono e con i quali si sentano più a proprio agio». Ma si diceva della crescita del ruolo del manager di rete. «Il compito di sostegno commerciale e addestrativo rimane il principale», afferma Doris, «anche se negli anni il ruolo del manager si è evoluto perché il mercato è diventato più complesso e i supporti operativi che deve dare alla rete si sono accresciuti: per cui deve essere molto più a conoscenza della normativa e sui prodotti». «Al settore servono manager bravi, convinti e motivati», aggiunge Motta: «che siano remunerati attraverso delle over o con altre formule è indifferente».
Secondo Incrocci, «i manager devono essere valutabili. Facciamo indagini di customer satisfaction in pieno anonimato tra i promotori, che sono chiamati a dare un giudizio sulle loro strutture e relativamente ad attività specifiche. Tutto ciò serve affinchè l’azione dei manager sia di reale supporto e coerente alle esigenze dei promotori». «Fare il manager è una professione dura», afferma invece Escalona: «gestire i promotori è complicato ma è una professione utilissima all’azienda, perché consente di trasferire informazioni, regole e comportamenti. Inoltre, per un promotore è importante potersi confrontare con un manager nei momenti di difficoltà. Non cerchiamo manager che detengono il potere ma che favoriscano il lavoro di squadra». Il processo di trasformazione, osserva Albanese, è tuttavia ancora in atto. «Con la democratizzazione delle informazioni e lo sviluppo del web il ruolo del manager si deve trasformare, ma rimane una figura importantissima. Credo che debba diventare sempre più quello capace di incidere sul territorio, organizzando eventi per i clienti, iniziative di marketing a livello locale e apportando nuove occasione dei business per i propri promotori». Secondo Mossa, «in ogni organizzazione complessa la figura del manager è fondamentale: si deve occupare dello sviluppo commerciale, di organizzare parte della formazione fino all’affiancamento, mentre rispetto al passato non è più il detentore del controllo dell'informazione. Semmai oggi deve proporsi come un facilitatore capace di liberare tempo affinché il promotore curi al meglio gli investimenti del cliente». E se Tofanelli ritiene che «le organizzazioni complesse possono richiedere molte forme di risposta organizzativa non necessariamente gerarchica», per Bufi, «la figura del manager non scomparirà: qualsiasi organizzazione articolata e complessa richiede determinate funzioni.

Certo, il cambiamento “genetico” del promotore finanziario non può non riflettersi anche sui ruoli manageriali».

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