C'è la mano di Mario Draghi nello storico sorpasso (al ribasso) di ieri del Btp decennale rispetto al Gilt, l'omologo titolo inglese. Una cosa mai vista, quel rendimento del 2,43% sui nostri Buoni inferiore al 2,47% del bond di sua Maestà. E la mancanza di un precedente indica da un lato l'eccezionalità dell'evento e dall'altro conferma come i fondamentali abbiamo perso gran parte del loro peso nel mondo della finanza.
Il confronto puramente economico tra Italia e Grand Bretagna è, infatti, improponibile. Lo ricordava proprio ieri l'Ocse, fissando a -0,3% la stima del Pil tricolore nel secondo trimestre (un valore peggiore al -0,2% dell'Istat), contro un'espansione britannica del 3,2%. Le differenze tra un Paese che soffre ancora un clima recessivo e un altro capace di correre perfino più degli Usa si colgono tutte anche nel diverso andamento della disoccupazione, al 12,3% nella penisola, appena al 6,4% oltre la Manica.
Se proprio si vuole trascurare lo stato di salute economico, in genere è il rischio di credito a determinare l'andamento dei tassi dei titoli di Stato. Ovvero, le probabilità di un default. Anche in questo caso molto più alte in Italia che non a Londra. Così, può apparire piuttosto singolare il fatto che nell'inverno 2011, quando lo spread viaggiava verso i 600 punti (148 ieri) e il Tesoro era costretto a pagare oltre il 7% per collocare i Btp, la situazione era la stessa di oggi: tra ottobre e dicembre, il Pil scese dello 0,2%, condannandoci a una nuova recessione dopo quella già subita nel periodo 2008-2009. Quei picchi, costati la poltrona a Silvio Berlusconi, hanno determinato le successive politiche di austerità, poi rivelatesi inefficaci nella riduzione del debito e mortifere per occupazione e consumi.
In assenza di un nuovo miracolo italiano, e ancora latitanti le riforme strutturali richieste, la progressiva discesa dei differenziali di rendimento che ieri ha portato i CTz al minimo storico dello 0,326% (e oggi il BoT semestrale potrebbe scendere allo 0,10%), porta il timbro di quel «whatever it takes» pronunciato da Draghi al fine luglio 2012 per mettere spalle al muro la speculazione. La scorsa settimana, a Jackson Hole, il numero uno della banca centrale di Francoforte ha compiuto un ulteriore passo in avanti, aprendo alla possibilità di usare nuove armi non convenzionali per sconfiggere la deflazione. Già in passato l'ex governatore di Bankitalia non aveva escluso un programma di quantitative easing, cioè di acquisto di bond sovrani, ma questa volta agli occhi di alcuni osservatori l'ipotesi è apparsa meno remota perchè potrebbe trovare l'appoggio della Germania, a sua volta alle prese con un deterioramento della congiuntura.
Difficile, tuttavia, immaginare il lancio del QE gia in settembre, quando la Bce sarà alle prese con l' asset quality review delle banche, il varo delle operazioni di Tltro e la messa a punto dello schema di acquisto degli Abs. Inoltre, è quantomeno dubbio che la Bundesbank abbia abbandonato la tradizionale contrarietà agli acquisti selettivi di titoli di Stato. Semmai, la Buba vorrebbe uno shopping pro quota, in base al peso dei singoli Paesi dell'euro zona.
Draghi sfrutta intanto, attraverso il suo annuncio, il fatto che la Bce sia ancora in una fase di alleggerimento monetario, mentre le altre banche centrali - e in particolare la Fed - si muovono in direzione opposta. Ciò continua a indebolire l'euro, scivolato a 1,3190 dollari. Se il deprezzamento continuerà, Francoforte avrà ottenuto un doppio successo: rianimare l'export e far risalire l'inflazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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