Fin dalla primavera scorsa, alle prime avvisaglie di tensioni commerciali tra Usa e Cina, il Fondo monetario era stato chiaro: «I dazi sono un danno per l'economia globale». A distanza di qualche mese, l'organismo guidato da Christine Lagarde quantifica quei danni nell'ultimo World Economic Outlook. Per la prima volta da due anni, le stime sulla crescita mondiale sono state riviste al ribasso di 0,2 punti percentuali, al 3,7% per il 2018 e il 2019. «Tutti soffriranno» a causa della trade war tra i due colossi, ha detto il capo economista del Fmi, Maurice Obstfeld, consapevole che «la suscettibilità ai grandi choc globali sia aumentata».
A Washington, dove il Fondo ha la propria sede, sono convinti che il montante protezionismo stia provocando un'espansione economica meno sincronizzata tra i Paesi, in un momento in cui la massa del debito pubblico e quello delle imprese è in aumento. Il pericolo è quello di un ulteriore peggioramento. Finora, alle tariffe punitive per 250 miliardi di dollari decise da Donald Trump sulle merci cinesi, Pechino ha risposto con contromisure per 110 miliardi. Ma la Casa Bianca ha già minacciato altre misure per 276 miliardi.
L'escalation delle ritorsioni è tra le cose più temute dal Fmi. «La politica commerciale riflette la politica e la politica rimane instabile in diversi Paesi, ponendo ulteriori rischi», ha detto Obstfeld. Il passaggio dalla retorica protezionistica a un'azione sempre più intimidatoria porta a un'incertezza che «potrebbe indurre le imprese a rinviare o rinunciare alla spesa in conto capitale e quindi a rallentare la crescita degli investimenti e della domanda».
C'è, però, anche un altro fronte sotto stretto monitoraggio. Ovvero, le prossime mosse della Federal Reserve. Se il Fondo ritiene «eccezionalmente robusta» la crescita Usa quest'anno (2,9% contro il 2% dell'eurozona) grazie all'abbattimento delle aliquote voluto da Trump, il prossimo gli effetti dei dazi si faranno sentire sotto forma di un rallentamento al 2,5%, 0,2 punti in meno rispetto alla stima precedente. Eppure, proprio quegli stimoli fiscali «ampi» e «prociclici», mettono sotto pressione la Fed affinchè aumenti il costo del denaro per tenere l'inflazione ancorata alle aspettative intorno al target di crescita annua del 2% «prevenendo un surriscaldamento dell'economia». Il Fondo invita la banca centrale guidata da Jerome Powell a procedere con strette graduali e a comunicare con chiarezza cosa intende fare. Ma il mercato continua a scommettere su una Fed più aggressiva. I rendimenti dei T-bond a 10 anni sono balzati infatti ieri sopra il 3,25%. Si tratta di un livello, il più alto da aprile 2011, che potrebbe spingere gli investitori fuori da Wall Street, con danni per l'economia.
Paradossalmente, l'istituto Usa potrebbe avere nel 2019 più problemi di una Bce alle prese con il periodo di transizione tra la fine del quantitative easing e il primo rialzo dei tassi dopo l'era del «Whatever we takes».
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