I privati più forti della crisi Il pubblico batte in ritirata

È il peso oltre confine la carta vincente. Per i big statali meno ricavi e utili, ma le cedole fanno felice il Tesoro

I privati più forti della crisi Il pubblico batte in ritirata

Mettiamola così: ci sono le imprese-pongo, capaci di modellarsi rapidamente per rispondere alle sfide della globalizzazione; e ci sono le imprese-marmo, strutturalmente solide, ma più statiche, difensive e meno aggressive. Vincono le prime, tutte in mani private, nel derby che le vede opposte a quelle a controllo pubblico nell'Annuario 2016 R&S curato dall'ufficio studi di Mediobanca. E non è la prima volta: se nel 2011 la redditività industriale era del 13,8% per i privati e del 9,7% per il settore pubblico, nel 2015 il rapporto è diventato 12,4-6,8%. Si allarga quindi la forbice tra un modo dinamico di fare impresa, gettando il cuore industriale oltre i confini italiani, e un altro arroccato a protezione delle posizioni di rendita in una strategia che potrebbe mettere a rischio anche l'ultima primazia rimasta: ovvero, la ricca pioggia di dividendi con cui, ogni anno (12,8 miliardi di euro fra il 2011 e il 2015 contro i 6,9 incassati dai privati), le conglomerate a etichetta statale fanno sorridere il Tesoro.

Le cifre di piazzetta Cuccia evidenziano un segno meno davanti al fatturato complessivo dei 41 maggiori gruppi industriali (oltre a cinque holding non quotate), calato del 5% sul 2014, con -4,2% sul mercato domestico e -5,4% all'estero. Colpa dell'anemica crescita nazionale (+0,8% il Pil) ed europea e, soprattutto, dell'annus horribilis del petrolio. Sull'oil, infatti, è scivolato un gigante come Eni: giù il fatturato del 27,3%, anche per effetto delle cessioni di Saipem e Versalis. Il Cane a sei zampe resta al comando nella graduatoria degli utili 2011-2015 con 12,3 miliardi di euro e 5,6 miliardi di cedole versate, ma la pacchia potrebbe essere finita visto che nel primo semestre il gruppo ha perso 1,2 miliardi; medaglia d'argento a Enel (11 miliardi di profitti) e bronzo a Snam (4,9).

In generale, le dismissioni dei big pubblici hanno avuto come effetto la perdita di spessore internazionale, con la quota di giro d'affari estero in calo dal 54,4% al 48,4% del totale e una ricavi giù del 16,1% (-9,7% senza dismissioni). A soffrire di più, ovviamente, è stato il comparto energetico con un -19,8% (-13,1% al netto delle cessioni) da mettere in confronto con il passo dei gruppi privati sintetizzato da una crescita del 7,5%. Merito degli affari chiusi all'estero (+10,2%) con cui è stato più che compensato il calo accusato in Italia del 2,3% grezzo (-0,6% su basi omogenee). Non potrebbe essere altrimenti, visto che la manifattura vende 85 euro su 100 nelle Americhe e in Europa. La spinta che deriva dall'estero ha così permesso ai privati di far salire i ricavi del 10,3% (+11% oltre frontiera, +1,8% domestico). I top-seller? Al primo posto Moncler (+26,8%), seguita da Brembo (+16,2%), Luxottica (+15,5%), Exor (+13,5%) e Salini Impregilo (+11,1%). Il primo gruppo pubblico della graduatoria, al sesto posto, sono le Poste (+10,1%). Di rilievo, la performance di De Agostini: con l'acquisizione dell'americana Igt balza del 16%. Il podio dei maggiori esportatori premia Luxottica (96,6% del fatturato all'estero), Pirelli (94%), Exor (93,2%), seguite da Danieli (92,8%) e Prada (88,9%). Il primo gruppo pubblico è Fincantieri (84,9%).

Lo «sfogo» dell'attività fuori dell'Italia si traduce inoltre in un aumento dei posti di lavoro (+9,7%), mentre il pubblico taglia (-15%); e anche nella generazione di ricchezza: nel comparto pubblico è quasi nulla (0,6% del capitale investito), mentre nel manifatturiero privato è sette volte tanto (4,2%). Moncler, Ferragamo, Brembo, Recordati, Dè Longhi, Luxottica e Prysmian si distinguono sia per la redditività operativa (Roi), sia la redditività netta (Roe).

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