Ma Janet aveva le mani legate

Non è certo sorprendente la decisione della Federal Reserve di tenere le mani lontane dalla leva dei tassi. La frenata della Cina, lo scivolamento di Brasile e Canada in recessione e le crescenti difficoltà di Paesi legati a filo doppio con Pechino come Australia e Sudafrica, hanno in pochi mesi determinato un profondo cambiamento dello scenario economico internazionale. Se fino a prima dell'estate le titubanze di Janet Yellen a procedere alla mini-stretta erano connesse allo stato di salute dell'economia Usa, e dunque alla sua capacità di reggere l'urto di un seppur piccolo cambio di politica monetaria, nelle ultime settimane il compito di Eccles Building si era fatto oltremodo complicato.

La scelta di mantenere invariati i tassi appare del tutto logica, anche se rischia di mettere a nudo l'incapacità di Washington di non farsi condizionare dalle attuali turbolenze. Ma inasprire ora il costo del denaro avrebbe avuto implicazioni complicate da gestire. A ogni singolo membro del Fomc, il braccio armato in materia di tassi, non è certo sfuggito il fenomeno - già ribattezzato quantitative tightening - attraverso il quale numerosi fra i Paesi in difficoltà hanno intaccato le proprie riserve valutarie in dollari a scopo difensivo. Solo nel mese di agosto Pechino ha rovesciato sul mercato 94 miliardi di dollari del proprio stock, pari ora a poco meno di 3.600 miliardi. Secondo alcuni calcoli, la cessione di 500 miliardi di riserve avrebbe un impatto superiore ai 100 punti sul rendimento dei decennali Usa. In pratica, lo stesso effetto di una manovra sui tassi. Se la Fed avesse scelto di aumentare il costo del denaro, il biglietto verde si sarebbe ulteriormente apprezzato mettendo altra pressione sulle valute già sotto tiro. A quel punto, come accaduto nel 2013 quando l'allora numero uno della Fed, Ben Bernanke, annunciò l'intenzione di ridurre il ritmo di acquisto dei titoli, si sarebbe scatenata una fuga in massa di capitali dai cosiddetti Brics. Che, per tamponare l'emorragia, avrebbero fatto un massiccio ricorso al quantitative tightening.

Le previsioni economiche rilasciate ieri dall'istituto di Washington potrebbero però far pensare che l'economia ha le spalle sufficientemente solide per sopportare una guerra valutaria. L'obiettivo della piena occupazione è stato praticamente centrato, e l'inflazione rimane ancora bassa solo a causa dei bassi prezzi del petrolio, un fenomeno giudicato temporaneo. Goldman Sachs, che non ha escluso uno scivolamento del barile a 20 dollari, la pensa diversamente. Inoltre, l'apprezzamento del dollaro è un altro fattore di contenimento dei prezzi. Che, peraltro, rimangono ancora contenuti per le modeste pressioni salariali.

Ora: perché in un'economia talmente solida rimane così contenuta la crescita delle buste paga? Forse perchè tanto solida non è, come dimostrato per esempio dal crollo dell'indice manifatturiero della Fed di Philadeplhia? O perchè sulla robusta espansione del Pil nel secondo trimestre (+3,7%) ha pesato l'accumulo record delle scorte aziendali, che però già in luglio sono salite appena dello 0,1%. Un andamento fiacco che può incidere pesantemente sulla crescita da qui a fine anno. Un motivo più che valido per convincere la Fed a rimandare il rialzo dei tassi.

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