«La crisi del debito europeo è una minaccia per gli Stati Uniti». Con minime variazioni sul tema, questa frase è stata più volte ripetuta in corso d'anno come un disco rotto da Barack Obama, dal suo ministro del Tesoro, Tim Geithner, nonchè dal numero uno della Fed, Ben Bernanke. Tutti pronti a tirare per la giacchetta l'Europa spendacciona e dai bilanci fuori controllo. Con ciò compiendo una straordinaria opera di falsificazione e rimozione della realtà. Se c'è un Paese che non può dar lezioni sul modo di governare i conti pubblici, quello è proprio l'America. Proprio lì dove il mancato accordo sul fiscal cliff tra la Casa Bianca e i Repubblicani è il paradigma dei veti politici incrociati che impediscono di affrontare il nodo degli aggiustamenti fiscali. Non a caso, è sempre lì che il debito federale complessivo tocca l'astronomica cifra di 162mila miliardi di dollari, pari al 140% del Pil. Venti punti più dell'Italia.
A tale livello, insostenibile se non fosse che gli investitori internazionali continuano a finanziare gli Usa (Cina e Giappone hanno crediti per oltre 2.300 miliardi), il Paese è arrivato sull'onda dell'emergenza finanziaria scatenata dal virus dei mutui subprime e della conseguente necessità di evitare il fallimento delle too big to fail, ovvero le principali banche, Lehman Brothers esclusa. Da allora, sono passati poco più di cinque anni. Un lustro durante il quale il piano Tarp da 700 miliardi (la ciambella di salvataggio gettata agli istituti di credito) e tre manovre di quantitative easing della Fed (peraltro possibile innesco di un'iper inflazione) hanno contribuito sì a rimettere in piedi Wall Street (e a riproporre la vecchia e immorale pratica dei bonus milionari ai top manager), ma al tempo stesso hanno scavato una voragine nei conti a stelle e strisce. Agendo anche sulla leva dei tassi, da tempo azzerati, Bernanke ha finito per diventare lo sponsor principale delle strategie di deficit spending di Obama, sotto la cui presidenza il debito federale è cresciuto del 50%.
A colpi di un disavanzo annuo tra il 7 e l'8% del Pil, l'amministrazione democratica ha dapprima aiutato il Paese a uscire dalla recessione, evitato quindi il rischio mortale del double dip (un doppio tuffo nella crisi) e puntellato poi la crescita. Nonostante tutto, ciò non è ancora abbastanza. L'espansione attorno al 2% con cui, presumibilmente, gli Usa archivieranno il 2012 non è così forte da sanare la piaga della disoccupazione. Ufficialmente, i senza-lavoro sono pari al 7,7%, ma questa percentuale non include chi, ormai scoraggiato, ha smesso di cercare un posto. La disoccupazione reale, invece, sfiora il 15 per cento.
Insomma, troppa gente è ancora a spasso. Un danno per i consumi privati, la vera spina dorsale Usa, già da tempo stressati dall'impoverimento di un ceto medio i cui debiti ammontano al 250% del Pil. L'eventuale mancato accordo sul precipizio fiscale darebbe un'altra mazzata alle famiglie americane, sotto forma di nuove tasse per 500 miliardi e tagli alle spese per altri 100. Senza contare, ovviamente, le conseguenze derivanti da una caduta del Pil di quattro punti che condannerebbe gli Stati Uniti alla recessione finendo per infoltire le schiere dei jobless.
Se la crescita di oltre 1.000 punti del Dow Jones da inizio anno sembrerebbe testimoniare l'eccellente stato di salute del Paese, la realtà è che l'America è seduta sopra a una polveriera. Pronta a saltare in aria. Fitch e Moody's hanno già minacciato di strapparle le mostrine della tripla A in assenza di misure di medio-lungo termine per ridurre il debito. E Standard&Poor's, che già ha declassato gli Usa nell'estate 2011, ha in canna un altro downgrade. Obama ha promesso un cocktail di aumenti di imposte e tagli alla spesa per risparmiare 4mila miliardi in 10 anni.
Il braccio di ferro con il Gran Old Party sul fiscal cliff dimostra che non sarà una passeggiata di salute. Anzi, l'aria potrebbe diventare presto tossica. Perchè i grandi untori del debito sovrano rischiano di essere proprio gli Stati Uniti.
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