
Trapelano un po' con il contagocce le notizie sulle relazioni tra imprese italiane e Libia, un tempo floride, poi gelate dalla rivoluzione del 2011. I grandi gruppi - Eni e Impregilo in primis - fanno storia a sé, e per loro continuano, silenziosamente, le trattative tese a riportare lavori e commesse alla normalità, anche con l'impegno dei due governi. Non riescono a «far notizia», invece, quelle circa 80 imprese medie e piccole, rimaste inchiodate in suolo libico con crediti stimati dalla Camera di commercio italo-libica in circa 600 milioni di euro. Si tratta di imprese distribuite in tutto il nostro Paese e appartenenti a vari settori, a cominciare da costruzioni, edilizia, impiantistica, meccanica, progettazione, manutenzioni.
«Due aziende, a causa dei crediti con Tripoli, sono già fallite, molte hanno dovuto ridimensionarsi, tutte sono in sofferenza», spiega l'architetto Gianfranco Damiano, che della Camera di commercio italo-libica è presidente. Quello che le imprese lamentano, soprattutto, è l'insensibilità del nostro governo, al quale chiedono sostanzialmente due cose: di cercare di riattivare, in via diplomatica, i positivi rapporti precedenti ai moti rivoluzionari, pagamenti compresi; e di accordare alle imprese in difficoltà una moratoria o una compensazione fiscale, evitando di dover pagare imposte su incassi non avvenuti. «Il ministero degli Esteri ci sta dando una mano, quello dello Sviluppo economico sembra completamente assente», sintetizza Damiano.
Varie interrogazioni bipartisan non hanno ottenuto soddisfazione. Più ardita, forse impraticabile, sarebbe un'azione di sequestro di beni libici in Italia per sanare i debiti: pregiudicherebbe il futuro. «Oggi le imprese sono a un bivio - spiega Gianni De Cecco, ingegnere, friulano, titolare di una società di progettazione -: o abbandonano le posizioni, rinunciando alle prospettive che potrebbero riaprirsi, oppure continuare a centellinare il proprio impegno, con ampio sacrificio e rischio personale. Perché un fatto è certo: siamo soli». Se le nostre imprese si ritirano, sono già pronti e agguerriti i concorrenti internazionali, francesi e turchi in particolare, bramosi di occupare le loro posizioni.
Intanto De Cecco, che vanta crediti per alcuni milioni relativi a progetti di urbanizzazioni e di infrastrutture, ha dovuto licenziare 12 dipendenti. Al capitolo crediti - fa poi notare Damiano - si aggiunge quello dei danni di guerra: «Perché molte imprese italiane durante la rivoluzione sono state saccheggiate, e hanno perso camion, scavatrici, impianti, materiali».
Qualche spiraglio positivo c'è.