Economia

Quanto le tasse frenano il risparmio

Le recenti disposizioni fiscali influiscono sugli investimenti e le transizioni finanziarie delle famiglie. Come? Se ne è parlato a una tavola rotonda organizzata da BancaFinanza

Quanto le tasse frenano il risparmio

L’approvazione della Tobin Tax, avvenuta lo scorso febbraio, non si è rivelata un fatto isolato nel panorama fiscale italiano dell’ultimo anno. Come si sa, su questo fronte ci sono stati molti interventi, come la riscrittura delle aliquote delle rendite finanziarie, le modifiche sull’imposta di bollo sui conti correnti, sulle attività finanziarie detenute all’estero e sugli immobili situati oltre confine .

Nuovi interventi, quindi, su un panorama già di per sé complesso e incerto, soprattutto dal punto di vista applicativo. Per fare il punto della situazione, BancaFinanza ha organizzato il dibattito Tassazione sul risparmio e imposta patrimoniale: quali effetti sui redditi, moderato dal direttore Angela Maria Scullica e da Filippo Cucuccio, giornalista e direttore generale dell’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del credito. Al dibattito hanno partecipato Maurizio Bufi, presidente dell’Anasf; Enrico Granata, docente di Diritto bancario all’università Roma 3; Alberto Majocchi, ordinario di Scienza delle finanze all’università di Pavia; Mauro Maré, ordinario di Scienza delle finanze all’università della Tuscia e presidente di Mefop; Matilde Carla Panzeri, presidente di Npl e membro del collegio dei revisori dei conti della Consob. Ed ecco che cosa è emerso.

Domanda. Qual è il rapporto tra sistemi fiscali nazionali e i vincoli assunti in sede europea in tema di bilancio?

Marè. Una valutazione appropriata del fiscal compact in effetti non può che essere legata a un’attenta lettura dell’ultimo provvedimento in materia di stabilità, varato nello scorso dicembre. La norma prevede misure importanti: il pareggio di bilancio in termini strutturali nel 2013; l’aumento delle aliquote e la riduzione di quelle dell’Irpef; un tetto alle detrazioni e deduzioni fiscali; una notevole semplificazione delle tax expenditures; l’introduzione della Tobin Tax e la detassazione degli aumenti di produttività. In realtà, alla prova dei fatti, molte di queste misure sono scomparse. A rimanere sono stati solo alcuni interventi specifici, tra cui l’aumento delle detrazioni per i figli. Ma quel che mi preme sottolineare è come conciliare gli impegni assunti in sede internazionale con un livello di prelievo complessivo che è decisamente molto elevato (circa il 46% del Pil) e che si oppone alla crescita reale del paese. Occorre ripensare il sistema fiscale nazionale, determinando uno spostamento del carico fiscale dal settore lavoro/capitale a quello del patrimonio/consumi, così come avviene in molti altri paesi europei. Uno spostamento - aggiungo - auspicabile alla luce anche dei più recenti studi del Fondo monetario internazionale e dell’Ocse, che confermano come le imposte sul patrimonio e quelle sui consumi finali siano le meno distorsive per la crescita economica.

Granata. Mi soffermo su due aspetti del fiscal compact, il trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, sottoscritto da 25 dei 27 paesi membri dell’Ue (fanno eccezione Gran Bretagna e Repubblica Ceca) e in vigore dal 1° gennaio di quest’anno. Il primo riguarda l’obbligo di pareggio (o avanzo) per i bilanci nazionali, che l’Italia ha incorporato nella carta costituzionale. E che prevede una serie di misure collaterali particolarmente stringenti, tra cui la verifica della Corte di giustizia europea. Un secondo aspetto è la previsione del trattato (articolo 4) che impone agli stati contraenti di operare a partire dal 2015 una riduzione - a un ritmo medio di un ventesimo l’anno - della parte che eccede il 60% del rapporto fra debito pubblico e Pil. Questo aspetto ha avuto minore eco in Italia. Eppure, dovrebbe destare una vivissima attenzione e preoccupazione in un paese come il nostro. Perché questo impegno causerà una riduzione valutabile in circa 50 miliardi di euro l’anno. Bisogna poi tener conto del carico degli interessi che comunque maturano annualmente sullo stock di debito, per quanto annualmente ridotto, che soprattutto nei primi anni le quote di decremento compenserebbero solo in parte.

Panzeri. La tassazione dei redditi da attività finanziarie è da sempre un argomento dibattuto nel regime fiscale di ogni paese. I vincoli sempre più stringenti che derivano dall’integrazione finanziaria internazionale si calano in un contesto dove è forte la tendenza a mantenere la sovranità fiscale nazionale. A mio parere, invece, è necessario che i sistemi fiscali dei Paesi Ue, nel comparto dell’imposizione sui rendimenti delle attività finanziarie divengano sempre più simili tra loro. Anche su un piano più generale, le crisi del debito sovrano hanno reso evidente che l’identificazione accentuata dell’imposta personale progressiva con una sui redditi da lavoro, dipendente e autonomo, pone rilevanti problemi di equità, alla base di ogni sistema tributario. Anche su questo comparto è auspicabile un coordinamento tra gli stati, se si vuole proseguire nella costruzione europea. E i sistemi di cooperazione rafforzata sembrano andare in questa direzione: si supera così - e lo sottolineo - il vincolo dell’unanimità dei consensi.

Majocchi. Considerata la complessità dell’argomento affrontato mi limito a considerazioni flash. La prima è una premessa di contesto generale: l’Europa deve affrontare le conseguenze della crisi, che inizia nel 2008 negli Usa e poi diventa europea. Appare come una crisi del debito sovrano, ma ha origine nel settore finanziario. La seconda considerazione ci porta al tema della tassazione del settore finanziario. Il 22 gennaio scorso il consiglio Ecofin ha autorizzato una cooperazione rafforzata fra 11 paesi dell’Ue per introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie. Secondo l’articolo 113 del Tfeu, il consiglio deve decidere in ordine all’armonizzazione della legislazione riguardante turnover taxes, accise e altre forme di imposizione indiretta nella misura in cui importano per il mercato interno e per evitare distorsioni della concorrenza. Ricordo che, nel 2011, si era avviato un dibattito sulla tassazione finanziaria. L’obiettivo era assicurare un contributo del settore alla soluzione della crisi e un’equa tassazione rispetto ad altri ambiti, per evitare eccessivi comportamenti rischiosi e per produrre gettito. Ma la proposta iniziale della commissione (tasso dello 0,1% per le transazioni su tutti gli strumenti, 0,01% sui derivati) non aveva raccolto consenso generale. Allora, come soluzione alternativa si è fatto ricorso alla cooperazione rafforzata prevista dall’articolo 20 del Trattato sull’Unione europea.Colgo l’occasione per ricordare anche le tre giustificazioni per la tassazione del settore finanziario. La prima: ridurre i rischi eccessivi del settore che generano esternalità negative su tutta l’economia. È una sorta di tassa pigouviana che internalizza le esternalità e dissuade dai rischi eccessivi. Seconda motivazione: il settore finanziario è stato fattore di crisi ed è stato fortemente aiutato; adesso deve pagare e contribuire al consolidamento. Infine, molti servizi finanziari sono esenti da Iva. E, infine, una considerazione sull’unione fiscale. Nella roadmap della commissione, il completamento dell’unione bancaria è prioritario. Ma questa operazione deve essere seguita da un’unione fiscale con un bilancio separato dell’eurozona, dotato di un’adeguata capacità finanziaria: in particolare con Carbon tax e Financial transaction act. In vista delle elezioni del parlamento europeo del 2014 occorre che le autorità politiche dell’Unione (consiglio, commissione e, appunto, parlamento) preparino per l’opinione pubblica un progetto adeguato per ristabilire la fiducia, condizione necessaria per la ripresa dell’economia.

Bufi. Intervenendo da ultimo su questa domanda e condividendo molte delle affermazioni degli altri partecipanti, mi limito ad alcune annotazioni e perplessità di fondo. Prima di tutto - a prescindere da aspetti e valutazioni di ordine giuridico sollevate sul fiscal compact - tutto ruota intorno alla sostenibilità di misure così rigide e invasive della sovranità nazionale. Il tema allora è: se un paese non ha crescita non può permettersi di fare deficit strutturale, soprattutto in presenza di un elevato indebitamento rispetto al Pil. Con quale rischio? Quello di essere percepito come debitore insolvente. È ovvio che tutto ciò ha effetti sui redditi, sui consumi e di conseguenza sui risparmi, almeno nel breve periodo.

D. Soffermiamoci allora sull’attuale normativa fiscale italiana in tema di risparmio, in cui si inserisce l’introduzione del nuovo provvedimento di Tobin Tax.

Majocchi. Alcune rapide considerazioni sulla tassazione delle transazioni finanziarie, svolta sempre in un’ottica internazionale. Sono sicuramente molti i paesi che pensano di introdurre il Financial transaction act, ma ritengo condizione preliminare che ci sia un coordinamento e che a esso debba accompagnarsi uno sforzo adeguato di regolamentazione, in particolare per il settore bancario. Per l’aspetto tassazione, ricordo che due ipotesi sono sul campo: Financial transaction tax e Financial activities tax. Il gettito atteso dipende anche da fattori come la delocalizzazione o l’elusione. La Commissione stimava, per la Ftt nel 2010, un gettito di 60 miliardi senza derivati (perché è complicato tassarli), mentre limitandosi alle sole transazioni su equity e bond il gettito scenderebbe a 20 miliardi; infine, includendo i derivati, si potrebbe pensare di arrivare fino a 150 miliardi nell’Europa a 27. C’è un aspetto che mi preme sottolineare legato alla potenzialità della Ftt di stabilizzare i mercati riducendo gli scambi speculativi a breve, specialmente quelli frequenti. Ma la Ftt, in realtà, può accrescere la volatilità dei prezzi, riducendo la liquidità del sistema finanziario. Inoltre, le esternalità negative dell’high frequency trading sono da accertare. E, aggiungo, la Ftt tassa il valore lordo delle transazioni, non il valore aggiunto. E quindi è cumulativa. Quanto alla Financial activity tax proposta dall’Imf, cade sui profitti totali e sul monte salari. Mentre nella Ftt ogni operatore finanziario è tassato sulla base delle sue transazioni, la Fat tassa le società finanziarie. Per l’Europa a 27, il gettito di questa imposta potrebbe ammontare a 25 miliardi. La distribuzione dell’introito riflette quella del settore finanziario; quindi è meno concentrato che per la Financial transaction tax, dove le operazioni si realizzano in pochi centri altamente specializzati. Qui, invece, si tassano profitti e salari, che sono più equamente distribuiti. Anche in questo caso vi è la possibilità di shiftare (scalare, scaricare, ndr) il burden sui clienti o sugli utilizzatori di servizi finanziari. Tuttavia, non viene alterata la struttura dei mercati in cui le istituzioni sono attive, dal momento che viene tassato il reddito indipendentemente da come viene generato, non discrimina fra diversi prodotti, è indipendente dal livello di turnover. La Fat tassa tutti i guadagni del business delle istituzioni finanziarie, non solo il trading. E quindi non influenza direttamente l’highspeed trading. Rimane, dunque, una spinta alla delocalizzazione di attività fuori dall’Europa dei 27, ma c’è un interesse delle istituzioni finanziarie a rimanere dove sono i clienti. Tuttavia, come già detto, la tassazione non è l’unico strumento da utilizzare in una riconsiderazione complessiva del sistema finanziario. C’è, infatti, un problema di regolamentazione, in particolare per il settore bancario. La crisi ha messo in evidenza che la commistione fra l’azienda di credito tradizionale che utilizza i depositi per prestiti a famiglie e imprese e la banca che si avventura in operazioni rischiose utilizzando i depositi dei clienti porta gravi problemi. Attualmente, per tentare di avviare a soluzione questa problematica, ci sono due proposte all’esame, frutto del rapporto Liinkanen. La prima prevede un aumento dei capital requirements sulle attività di trading e piani credibili di soluzione delle crisi bancarie soggetti all’approvazione dell’autorità incaricata della supervisione del settore. Nel caso di mancata approvazione dei piani, si apre la seconda strada: la separazione di certe attività bancarie. In caso di separazione obbligatoria, questo avviene sulla base di tre principi. Eccoli. Se le attività di trading superano un certo livello nei balance sheets delle banche, i gruppi creditizi devono organizzare un’entità separata - una trading entity. Poi, la trading entity deve essere capitalizzata separatamente e non deve essere finanziata dai depositi oggetto di assicurazione pubblica. Infine, la deposit bank non può supportare la trading entity, né direttamente, né indirettamente, con trasferimenti o assunzione di impegni. Ci sono quattro motivi, infine, esposti per giustificare la separazione: è un mezzo per impedire alle aziende di credito di imbarcarsi con i depositi assicurati in attività con rischi elevati e difficili da misurare, e che non sono essenziali per una banca di deposito; riduce la complessità e la scarsa trasparenza del sistema bancario, rendendo più semplice l’attivazione di meccanismi di recupero e di soluzione delle crisi; rende più facile la gestione e più trasparente per gli outsider monitorare e supervisionare le istituzioni bancarie; riduce i rischi che derivano dal mixing di culture differenti .

Panzeri. Ricordo che le attività finanziarie sono soggette a pressione fiscale sotto tre profili. Il primo è quello reddituale. In Italia, negli ultimi due anni, si è realizzata un’omogeneizzazione dal prelievo fiscale sulla maggior parte degli strumenti finanziari a livello del 20%. L’obiettivo era tendere a una neutralità del trattamento fiscale degli strumenti finanziari. Il traguardo, tuttavia, non è stato raggiunto. Per due motivi: la permanenza dell’aliquota del 12,5% sugli interessi dei titoli di stato ed equiparati, e il diverso sistema di tassazione tra i redditi di capitale propriamente detti e i redditi diversi. Aggiungo che negli altri paesi della Ue e negli Usa il regime di prelievo è simile al nostro, salvo che per la Francia, dove dal 2013 la tassazione di dividendi, interessi e plusvalenze è progressiva (tra l’altro, è notevolmente attenuata da soglie di esenzione). Negli altri paesi Ue, le aliquote medie ponderate di prelievo sui redditi di capitale si attestano su valori più alti, e anche per i titoli pubblici l’aliquota del 12,5% è circa la metà di quella esistente in media nel resto dell’Unione. Per il secondo profilo, quello patrimoniale, in Italia è stata già introdotta una imposta patrimoniale surrettizia: il bollo sui depositi di titoli, che altro non è che una forma di prelievo patrimoniale: si somma a quello reddituale e sostanzialmente colpisce anche quando non ci sono guadagni. In Olanda esiste un prelievo simile (1,2% del patrimonio in attività finanziarie) ma esiste solo questa forma di prelievo sulle attività finanziarie. Per il terzo profilo, quello delle transazioni: la proposta di direttiva Ue prevede di colpire quelle relative a tutti i titoli, mentre la Ftt già introdotta in Francia e in Italia colpisce solo acquisti e transazioni di tipo azionario. Quello che va sottolineato è che la pressione fiscale riduce i rendimenti per gli investitori, e quindi provoca un aumento del costo del capitale di rischio e di debito per effetto della traslazione all’indietro sulle imprese. E vengo ora alla Financial transaction tax introdotta anche in Italia in base a una procedura di “cooperazione rafforzata” che vincola solo alcuni paesi, per la precisione 11. Con quali effetti? L’introduzione di un’imposta sulle transazioni equivale, da un punto di vista economico, a un aumento dei costi delle transazioni finanziarie, e può comportare molteplici effetti sui mercati finanziari, sugli intermediari, sugli investitori.

D. Concentriamoci sul caso specifico italiano...

Panzeri. La norma italiana si caratterizza per essere limitata alle negoziazioni di titoli azionari e strumenti finanziari partecipativi. Questi, se vengono fatti sul mercato regolamentare, possono essere esclusi dall’imposta. In quali occasioni? Quando i titoli sono emessi da società la cui capitalizzazione media è inferiore a 500 milioni di euro nel mese di novembre dell’anno precedente a quello in cui avviene la transazione. Anche i derivati sono colpiti solo se hanno come sottostante un titolo azionario o partecipativo. E gli ordini di negoziazione ad alta frequenza sono tassati quando riguardano titoli azionari partecipativi. I soggetti passivi sono diversi a seconda della tipologia di operazioni. La natura dell’intervento definisce i soggetti passivi. Il ruolo degli intermediari (banche, finanziarie, sim e altri intermediari anche non residenti) è strategico: quando essi intervengono, sono loro che devono versare l’imposta, altrimenti questa è dovuta direttamente dal contribuente. Altro problema da risolvere è legato alla caratteristica principale di questa norma, la tassazione dei derivati, che è un unicum in Europa. Rimane, infatti, aperto il problema della definizione dei presupposti su cui si tassano i soggetti che sottoscrivano un derivato su azioni italiane, e cioè su quale valore nozionale va calcolata l’imposta. Inoltre, l’intermediario è l’unico soggetto sanzionato senza rivalsa nei confronti dei soggetti passivi, che, per l’imposta sugli ordini di alta frequenza, è dovuta dal soggetto per conto del quale sono eseguiti gli ordini. Infatti, le sanzioni per omesso o ritardato pagamento si applicano esclusivamente ai soggetti tenuti a questo adempimento, che rispondono anche del pagamento dell’imposta. È loro consentita la facoltà di sospendere l’esecuzione dell’operazione fino a che non ottengano la provvista per il pagamento dell’imposta. L’intermediario non è quindi un sostituto di imposta, come era nel caso dello scudo fiscale. Rimane da definire meglio la figura dell’intermediario: è responsabile d’imposta come il notaio? E se non ha l’obbligo della rivalsa, su chi grava l’imposta stessa? Un altro elemento interessante è l’ampia sfera di esclusioni e di esenzioni: per esempio, non è colpito il mercato primario, sono escluse le operazioni compiute per la copertura dei rischi d’impresa, e quelle dei soggetti che favoriscono la liquidità dei prodotti. Infine, si può sottolineare che l’imposta sugli ordini di alta frequenza esprime meglio la finalità di contrasto alla speculazione. Infatti, la base imponibile è costituita dal controvalore degli ordini annullati o modificati, che in una giornata di Borsa superano una data soglia numerica, stabilita dal decreto di attuazione, che non può essere inferiore al 60% degli ordini trasmessi. Vengono così colpite le transazioni in sé, indipendentemente dagli effetti economici immediati per le parti, ma che per la loro frequenza sono idonee a causare fenomeni di turbolenza sui mercati, e cioè variazioni dei prezzi di Borsa fino a determinati valori desiderati .

Bufi. Più in generale, mi pare di poter tranquillamente affermare che l’attuale sistema di tassazione del risparmio in Italia non appare equo, ancor prima dell’introduzione della Tobin tax. È necessaria, infatti, una maggiore armonizzazione e perequazione della tassazione generale delle rendite finanziare; per esempio unificando sotto una stessa definizione i “redditi finanziari” e cancellando una distinzione bizantina tra redditi di capitale e redditi diversi a prescindere dalle aliquote applicate. Perplessità assai forti accompagnano, inoltre, l’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, anche se la filosofia originaria che ispira la Tobin tax - cioè quella di disincentivare la speculazione finanziaria - può essere giustificabile.

Granata. Nell’agosto del 2011, con il decreto legge 138/2011 (convertito con legge 148/2011), si è proceduto a un’ampia riforma della fiscalità finanziaria. L’omogeneizzazione delle aliquote dell’imposizione sui redditi dei prodotti finanziari al 20% ha ridotto il margine. Perché le scelte del risparmiatore in sede di investimento (o dell’impresa in sede di emissione di strumenti di raccolta) siano motivati, o quanto meno condizionati, da considerazioni di convenienza o penalizzazione fiscale. Per esempio: fino alla riforma, l’emissione di certificati di deposito bancari, soggetti (qualunque ne fosse la durata) a un’aliquota pari al 27%, era spiazzata dal miglior trattamento di cui beneficiavano le obbligazioni: queste, a seconda della durata a breve o a medio lungo termine erano colpite da un aliquota rispettivamente pari al 27% al 12,50%. Se la tendenziale omogeneizzazione della fiscalità delle rendite finanziarie rappresenta un dato certamente positivo, sembra criticabile, invece, il mantenimento di ampie aree di trattamento privilegiato (tassazione al 12,50 %) per fasce rilevanti di strumenti quali i titoli di stato e i buoni fruttiferi postali. Esistono, invece, validi motivi nella logica della tutela del risparmio previdenziale e di sostegno all’espansione di strumenti integrativi al welfare.Anche in un’ottica di razionalizzazione della spesa pubblica. L’obiettivo è il mantenimento di un regime di favore per i risultati maturati dai fondi pensione che restano soggetti alla fiscalità dell’11% (a questi si aggiunge la deducibilità dei versamenti fino a 5.164 euro l’anno, ma anche la tassazione delle prestazioni ad aliquote contenute, dal 9% al 15 %). Rimane infine (purtroppo sulla carta) il trattamento migliorativo previsto per i piani di risparmio a lungo termine appositamente costituiti. Gli investimenti delle famiglie italiane sono tradizionalmente connotati da un marcata avversione al rischio e dalla preferenza per prodotti di breve durata e spiccatamente liquidi. Un incentivo fiscale a mantenere per un periodo di tempo significativo (per esempio, per un minimo di un quinquennio) il proprio investimento in strumenti finanziari favorirebbe una migliore canalizzazione del risparmio verso gli investimenti produttivi.

D. E passiamo ora a una considerazione sugli effetti dell’imposta di bollo sui depositi amministrati.

Panzeri. L’imposta di bollo introdotta con la manovra del luglio 2011, e modificata nella misura dal 1° gennaio 2013, colpisce gli estratti conto relativi ai conti correnti bancari e postali, i libretti di risparmio, i depositi di titoli e gli strumenti finanziari. In parallelo, sono state assoggettate anche le attività finanziarie detenute all’estero e i capitali che hanno formato oggetto di emersione grazie agli scudi fiscali. Il complesso delle misure delinea una tassazione patrimoniale di tipo reale, applicata con aliquote relativamente contenute su singole categorie di asset. La manovra ha visto la luce in tempi ristretti, e questa scelta è stata ritenuta preferibile rispetto all’introduzione di un’imposta patrimoniale generale, per esempio sul modello francese, che avrebbe richiesto tempi di attuazione più lunghi e la definizione preventiva dell’unità impositiva di riferimento (famiglia o individuo). A partire dal 1° gennaio 2013, dunque, l’imposta su conti di deposito, buoni postali cartacei e buoni postali dematerializzati aumenta dallo 0,10%, allo 0,15%, ed è abolito il tetto di 1.200 euro che nel 2012 limitava l’importo massimo. Resta invece fisso il valore minimo da pagare, pari a 34,20 euro. Rimangono esenti i buoni postali fruttiferi con rimborsi inferiori a 5 mila euro, i fondi pensione e quelli sanitari. L’imposta è dovuta anche per gli strumenti finanziari per i quali non sussiste l’obbligo di deposito. La novità di questa misura è costituita dalla definizione della base imponibile. Questa è determinata con riferimento al valore di mercato (non più, quindi, al valore nominale dei titoli e strumenti finanziari)alla data dell’invio della documentazione. Invio che si presume avvenga almeno una volta nel corso dell’anno. L’onere, proporzionale rispetto al valore del deposito, si aggiunge alla ritenuta o imposta sostitutiva del 20% (o del 12,50% per i titoli di stato) e si traduce in una riduzione del tasso di rendimento annuo. Per evitare elusioni, anche i depositi di attività finanziarie all’estero di persone fisiche residenti sono soggetti a un’imposta di bollo proporzionale, che colpisce anche i depositi di denaro oltre a quelli di titoli e di strumenti finanziari. Da ultimo va ricordato il prelievo di un “bollo speciale” sui capitali scudati.

Bufi. Ciò di cui stiamo parlando, in effetti, costituisce una mini-patrimoniale che penalizza il risparmio in quasi tutte le sue forme, compreso il piccolo risparmiatore, e tende a deprimere la propensione al risparmio, tipica caratteristica degli italiani. È il classico esempio di applicazione di un’imposta motivata dalla relativa facilità con cui individuare l’oggetto di imposizione. Si colpiscono i fondi di investimento, ma non conti deposito, sicav, polizze unit linked e depositi amministrati (conti titoli). Mi sembra di poter dire che questa misura rientra nel novero delle norme fiscali il cui effetto è profondamente distorsivo e destinato a penalizzare fortemente alcune tra le principali forme di “democrazia economica” per ri-convogliare il risparmio nei depositi bancari.

D. Qual è l’impatto dell’imposta patrimoniale, sui contribuenti, ma anche su debito pubblico, welfare e politiche di crescita?

Marè. Come noto, sul piano teorico ci sono due soluzioni che non mi sembrano assolutamente praticabili per l’Italia nell’attuale contesto europeo: il ricorso al default o l’inflazione, via quest’ultima ampiamente percorsa prima dell’avvento dell’euro. Rimane allora l’ipotesi di un’imposta straordinaria: ma di che tipo? Sui redditi? Sul patrimonio? La questione non è così semplice da risolvere, considerato il punto a cui si è arrivati in Italia. Se vogliamo impostare una politica fiscale orientata non solo al rigore, ma in prospettiva anche alla crescita del paese occorre favorire - come ho già accennato - uno spostamento del prelievo dai settori lavoro e impresa a quelli del consumo e dei patrimoni, da tassarsi questi ultimi in via ordinaria e non straordinaria. Certo, bisognerebbe tenere conto dell’effetto di maggiore regressività sortito dalle imposte indirette rispetto a quelle dirette: ci si è preoccupati di restituire parte del maggiore gettito alle famiglie e agli individui con redditi bassi attraverso una riduzione consistente delle prime due aliquote dell’Irpef, oppure con il potenziamento di alcune detrazioni che ne influenzano il profilo distributivo. E, in tal senso, non aiutano i dati statistici in nostro possesso, che offrono una fotografia non realistica del mondo dei contribuenti italiani. Aggiungo un secondo punto, che riguarda le misure efficaci per una reale semplificazione del sistema fiscale, la riduzione dei tempi e dei costi di adempimento e del controllo dell’amministrazione finanziaria. Mi rendo conto che i margini di manovra sono realmente stretti, perché le misure di revisione delle spese pubbliche devono essere sostenibili politicamente e realmente efficaci (per esempio: la tanto discussa e vendita di asset pubblici sembra, nei fatti, rimanere una mera ipotesi di lavoro destinata a restare sulla carta). Tuttavia, se si vuole realmente imboccare la strada dello sviluppo sinceramente non mi sembra di poter individuare altri percorsi praticabili.

Granata. Nel documento di Confindustria del 23 gennaio scorso (Progetto per l’Italia: crescere si può, si deve), è stato formulato un ampio ventaglio di proposte nell’obiettivo della crescita. Per quanto riguarda la fiscalità, si propone di ridurre l’aliquota Ires dal 27,5% al 23%, di portare a questa stessa quota l’aliquota dell’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie e di abrogare la disciplina di indeducibilità degli interessi passivi relativi a strumenti di finanziamento delle Pmi. Ma anche di razionalizzare le norme sulle perdite su crediti e sulla fiscalità internazionale, rivedere l’ordinamento introducendo norme dirette a colpire l’elusione ma non il legittimo risparmio d’imposta, cambiare la disciplina sul raddoppio dei termini di accertamento, rendendo proporzionate le sanzioni penali e amministrative all’effettiva gravità dei comportamenti, e migliorare il rapporto tra contribuente e agenzia delle entrate. Infine, la situazione di svantaggio competitivo, che è una realtà per le imprese in generale, e lo è ancora più aspra per le aziende bancarie e finanziarie; queste, infatti, scontano una serie di ulteriori penalizzazioni sotto il profilo della fiscalità. Le banche, in aggiunta alle tasse sul reddito di impresa (Ires), sono soggette a Irap, con un’aliquota superiore di circa un punto rispetto alle altre imprese (aliquota Irap per le banche: 4,65%). Le spese per interessi sono parzialmente indeducibili (4%). Le svalutazioni su crediti sono immediatamente deducibili solo per una parte contenuta: il resto viene spalmato su 18 esercizi. Le perdite su crediti non rilevano ai fini della base imponibile Irap. L’Iva è un costo, vista la sostanziale esenzione dell’attività caratteristica. Questo per quanto riguarda gli oneri di natura fiscale. A questi vanno aggiunti gli adempimenti che le banche devono soddisfare, non solo come sostituti di imposta, ma anche come incaricati del versamento nell’ambito dei rapporti con la clientela che fruisce di servizi finanziari. E, più in generale, gli oneri che derivano dall’aiuto alle istituzioni pubbliche (per esempio connessi all’alimentazione dell’anagrafe dei conti e dei depositi, alla detenzione degli archivi in funzione antiriciclaggio, all’espletamento di funzioni di ausiliari di giustizia e così via). Credo che sia opportuno, in definitiva, ripartire anche di qui per formulare un piano di politiche di crescita per il paese. Un piano che passi attraverso una riconsiderazione ragionevole dei carichi fiscali che strangolano le imprese italiane .

Panzeri. Ho già ricordato che, secondo me, una patrimoniale surrettizia, nel nostro paese, esiste già. Detto questo, ritengo che l’imposta di bollo e quella sulle transazioni finanziarie ad alta frequenza senza risultato economico, dovrebbero essere sostituite da una patrimoniale specifica sulla ricchezza finanziaria. Né si può ragionevolmente proporre in tempi ravvicinati una patrimoniale sulle consistenze immobiliari, già gravate dall’Imu, perché la definizione del valore degli immobili richiede una profonda modifica della loro entità catastale degli stessi (vale a dire l’individuazione dei valori medi di mercato sulla base delle segnalazioni dei notai). Entrambi questi sistemi richiedono, tuttavia, tempi non compatibili con l’acquisizione, a breve termine, di un idoneo volume di gettito. L»unico esempio, nell’Ue, di imposizione patrimoniale propriamente detta è quello della Francia, dove l’Impot de solidarieté sur la fortune risale ai primi anni Ottanta, e colpisce la differenza tra attività e passività patrimoniali del nucleo familiare.

Altro esempio da studiare è, infine, quello della Svizzera, dove l’Imposta sulla sostanza è di competenza di ogni cantone, con aliquote variabili e, in alcuni stati, molto lievi addirittura nulle.

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