Alessandro Profumo e Fabrizio Viola restano al loro posto nel cda di Mps. Ieri la riunione del board ha confermato le attese della vigilia prendendo atto delle risultanze dell'assemblea del 28 dicembre (posticipo dell'aumento di capitale da 3 miliardi) a una data successiva al 12 maggio. Viola, al termine de proprio intervento, ha rimesso il proprio mandato, avendo l'assise sconfessato la ricapitalizzazione messa a punto dal management che sarebbe dovuta partire in questi giorni, con il consorzio guidato da Ubs. I consiglieri all'unanimità hanno riconfermato la propria fiducia.
Ma, al di là delle formule di rito, sono state le valutazioni finanziarie e anche «politiche» a prevalere. E, soprattutto, non è detto che la guerra tra il top management e il presidente della Fondazione Mps Antonella Mansi, vera artefice del rinvio, sia terminata. Profumo, infatti, non ha nemmeno fatto il gesto simbolico del passo indietro ma ha avviato assieme al resto del board «approfondimenti di natura tecnico-legale riguardo gli eventuali effetti dannosi conseguenti allo slittamento dell'operazione». Investendone, anche sulla base di quanto richiesto dalla Consob, il comitato parti correlate. Profumo, cioè, continuerà a verificare l'ipotesi che la Fondazione abbia agito in conflitto di interessi rispetto alla banca come suggerito dal parere di Piergaetano Marchetti.
Occorre, però, un passo indietro. Nei giorni scorsi tanto il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, quanto il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni hanno esercitato tutto il loro potere di moral suasion affinché i vertici dell'istituto restassero al loro posto. L'interessamento di Via Nazionale è facilmente spiegabile: si tratta della terza banca italiana, ha fatto ricorso a 4 miliardi di Monti-bond e deve completare senza scossoni un piano di ristrutturazione. Ecco perché è stato stoppato l'ingaggio di Viola da parte del nuovo vertice della Popolare di Milano.
Più complesso, invece, è stato l'atteggiamento tenuto da Saccomanni. Anche se i sindacati bancari hanno individuato nel ministro l'istituzione alla quale chiedere tutela per i lavoratori a rischio in caso di naufragio, non è stato certamente questo pur nobile scopo a guidare l'azione «stabilizzatrice» di Via XX Settembre. Il titolare del Tesoro, purtroppo (ma anche per demeriti propri in ambito di politica economica), è oggetto degli strali della Commissione Europea. Da Bruxelles è stato fatto sapere al ministro che qualsiasi ulteriore intervento pubblico a favore del Monte (incluso l'improbabile coinvolgimento del Fondo strategico o della Cdp) sarebbe stato punito con il consolidamento del debito della Cassa con quello dello Stato, con conseguenze devastanti. Di qui il pressing - tanto su Profumo e Viola quanto su Mansi - perché nulla si muovesse e tutto restasse al proprio posto per guadagnare tempo.
«Faremo l'aumento di capitale», ha ribadito ieri sera Profumo sottolineando che «con la Fondazione ci sono i rapporti che esistono tra un azionista ed una banca che ha un azionista». Parole fredde che malcelano l'irritazione. Ora, infatti, la palla è tornata nel campo di Palazzo Sansedoni cui toccherà cedere in tutto o in buona parte il proprio 33,5 per cento, come da propositi. Le banche creditrici dell'ente (che 340 milioni di debiti) sono sempre state ottimiste sulla possibilità di collocare la partecipazione. Tra Fondazioni «amiche» (in primis Cariplo) e fondi di investimento (i rumor hanno accennato ad Aabar e Algebris) la partita si potrebbe anche chiudere in tempi non lunghissimi.
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