Non illudiamoci, la crisi c'è ancora

La nostra economia continua a perdere posizioni perché la spesa pubblica, la tassazione e la regolazione hanno raggiunti livelli ormai insostenibili

I dati macroeconomici diffusi da Eurostat, che attribuisce all’ultimo trimestre una leggera crescita dell’Europa (+0,3%), rischiano di diffondere ingiustificati ottimismi: sul futuro dell’Italia e dell’economia continentale nel suo insieme. Quando nel mondo ci sono realtà che si espandono con tassi percentuali a due cifre, non è ammissibile che ci si possa contentare di risultati tanto modesti, anche quando registrano una lieve inversione di tendenza. Da più parti, senza dubbio, si ha la percezione che le cose inizino in parte a migliorare, grazie a un aumento degli ordinativi. È chiaro che i dati positivi della Cina (orientata ad avere un tasso vicino al 10%, e non sul 7% come si credeva) rappresentano una spinta significativa, specie nei settori produttivi interessati all’export. Nell’insieme tutto questo è però destinato a produrre risultati deboli e solo momentanei se non ci si sbarazza di quel groviglio di regole e balzelli che sta distruggendo ogni opportunità di fare e costruire. Tralasciando i decimali e guardando la realtà per quello che è, oggi l’Europa è sostanzialmente ferma e l’Italia va perfino peggio. La nostra economia continua a perdere posizioni perché la spesa pubblica, la tassazione e la regolazione hanno raggiunti livelli ormai insostenibili. Se non si affrontano questi nodi e non si mette in discussione sul serio il modello del welfare State , è irragionevole aspettarsi una svolta. L’espansione dei poteri pubblici è ormai tale che si va assistendo a un impoverimento crescente: come testimonia la domanda interna, che rimane modesta. In questo quadro, sarebbe ingenuo credere che una quantità accresciuta di ordinativi da fuori frontiera possa bastare a guarire un sistema produttivo ormai in ginocchio. Purtroppo è ancora maggioritaria la posizione di chi crede che si debba seguire la strada della spesa pubblica, ignorando il patto di stabilità e i vincoli europei, illudendosi che in tal modo l’economia possa risollevarsi. Sarebbe però un errore e a tale proposito è bene non sovrastimare (e fraintendere) il dato riguardante la Francia, che segna un +0,5% sul trimestre ma che incassa i benefici, sempre e solo di breve periodo, delle politiche orientate verso la spesa. Non è però in questo modo che Parigi costruirà una ripresa su base solidi. Al contrario, lungo questa strada la Francia rischia una sindrome «italiana». Che la crisi sia profonda lo dice il fatto che non c’è speranza di iniziare ad affrontare il nodo della disoccupazione. Il premier Letta, al riguardo, è stato chiaro: forse ci potrà essere una debole ripresa, ma senza nuovi posti di lavoro. E d’altra parte, per rimettere in sesto imprese poco patrimonializzate, ostacolate da troppe bardature burocratiche e da monopoli pubblici costosissimi (oltre che da un prelievo fiscale e parafiscale che induce a delocalizzare), ci vuole davvero ben altro.

L’economia italiana non sarà certo sanata dal «decreto del fare», ma a ben guardare è tutta l’economia europea - nel suo difficile rapporto con il sistema delle regole e dei poteri pubblici - che ha bisogno di ripensarsi dalle fondamenta. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che un’Europa in grado di entusiasmarsi per uno 0,3% in più, e tutto ciò dopo vari anni di vacche magre, sarebbe un’Europa davvero ormai al capolinea.

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