La sindrome da Tafazzi ha colpito anche gli Stati Uniti. La gestione autolesionistica del fiscal cliff, scandita dal prolungato braccio di ferro tra Casa Bianca e Repubblicani, ha subito presentato il conto all'America: nel quarto trimestre il Pil è sceso dello 0,1%. Non accadeva da tre anni e mezzo. Non a caso, Alan Krueger, capo degli advisor economici di Barack Obama, ha parlato ieri di «ferite auto-inflitte all'economia».
L'intesa con cui il Congresso ha scongiurato l'innesco micidiale di tasse e tagli alla spesa che avrebbe trascinato il Paese in una brutale recessione (quattro punti sottratti alla ricchezza nazionale, secondo le proiezioni) è infatti arrivata troppo tardi. Quando, ormai, il danno (ben più grave del +1,1% atteso degli analisti) era stato fatto. La discesa del prodotto lordo sotto la linea di galleggiamento ha un colpevole ben identificato: il crollo della spesa federale, un -15% che non si vedeva dai tempi di Nixon. Il resto è imputabile al calo dell'export (-5,9%) e delle importazioni (-3,2%), a ulteriore dimostrazione di quanta sabbia sia finita negli ingranaggi statunitensi nell'ultima parte dell'anno.
Insomma, un'America ostaggio del precipizio fiscale. La tenuta dei consumi (+2,2%) e l'aumento degli investimenti privati (+8,4%) hanno evitato il peggio e consentito una crescita nel 2012 del 2,2%, in accelerazione rispetto all'1,8% dell'anno prima. Ritmo che l'eurozona si sogna (per non parlare dell'Italia), ma per Washington non ancora robusto a sufficienza per ridare slancio al mercato del lavoro e sanare la piaga della disoccupazione (al 7,8%).
Questa situazione mette la Federal Reserve con le spalle al muro. Ben Bernanke ha detto che i tassi resteranno tra lo 0 e lo 0,25% finchè la percentuale dei senza-lavoro non sarà scesa sotto il 6,5%. Ieri la banca centrale Usa ha confermato in toto la propria strategia, in particolare il programma di acquisto di bond da 85 miliardi, nonostante all'interno della Fed tiri una certa aria di fronda.
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