Prezzi sempre più freddi: Bce con le spalle al muro

Inflazione a -0,4% in Italia e Francia, giù in Germania e Spagna: pare una scelta obbligata il rafforzamento del programma di acquisto di titoli. Anche a causa di un euro troppo forte

Fredda, sempre più fredda. E lontana, sempre più lontana, dal target della Bce. Sembra ormai una missione impossibile quella di scaldare l'inflazione nell'eurozona. Anemici i prezzi in Italia (in settembre -0,4% su base mensile, dato rivisto ieri al ribasso dall'Istat), così come in Francia (-0,4%); da encefalogramma piatto in Germania (da 0,2% a 0) e in forte frenata in Spagna (-0,3%). Percentuali che, tra l'altro, rischiano di peggiorare nei prossimi mesi a fronte del rallentamento della Cina, ribadito dal tonfo dei prezzi alla produzione il mese scorso (-5,9%), e dalle spinte deflazionistiche date dall'apprezzamento dell'euro, proiettato verso quota 1,15 dollari a causa delle ormai minime chance di un rialzo dei tassi Usa.

L'impossibilità di ridare un po' di colore all'inflazione sembra indicare che se da un lato il piano di acquisto di bond varato la scorsa primavera ha reso meno zoppicante la ripresa economica (la Germania ha però tagliato all'1,7% la crescita per il 2015), dall'altro lato ha invece mancato forse il più importante degli obiettivi. Nei giorni scorsi, Mario Draghi ha ammesso che i prezzi non risaliranno prima del 2016, quando dovrebbero attestarsi all'1,1%. L'attesa sarà dunque lunga, e le aspettative potrebbero alla fine essere frustrate da una delle tante variabili in gioco. A cominciare dalle quotazioni del petrolio, che ora preoccupano anche l'Opec al punto da convocare un summit straordinario mercoledì prossimo, ma anche da quelle dell'euro, risalito ieri a 1,1450 dollari dopo che i dati Usa sulle vendite al dettaglio (+0,1% in settembre) e i prezzi alla produzione (-0,5%), hanno rafforzato l'aspettativa di un differimento della stretta monetaria. Sul da farsi la Federal Reserve appare sempre più spaccata, mentre il Beige Book diffuso ieri pone l'accento sulla «modesta espansione» economica da metà agosto agli inizi di ottobre.

Negli ultimi mesi l'Eurotower ha sempre negato che ci si trovi di fronte a una deriva deflazionistica in stile giapponese, preferendo legare i bassi livelli dell'inflazione a fenomeni temporanei. Ma la debolezza del Dragone cinese, una minaccia non solo per la ripresa globale ma anche per la dinamica dei prezzi, offre ora all'ex governatore di Bankitalia lo spunto per forzare la mano, magari già in occasione della prossima riunione del board della Bce in agenda giovedì prossimo a Malta. Come? Con la proposta - sicuramente avversata dalla Bundesbank - di aggiustare l'entità, la composizione e la durata del quantitative easing, che finora ha portato in “pancia“ all'Eurotower titoli per un controvalore attorno ai 360 miliardi. Draghi ha già annunciato la decisione di innalzare dal 25% al 33% la quota di titoli di Stato acquistabili per ogni emissione, ma Standard&Poor's mette in conto un Qe extra-large, con un importo fino a 2.400 miliardi e durata fino a metà 2018. Le aree di possibile intervento non mancano. Tanto per cominciare, l'impatto dell'apprezzamento dell'euro potrebbe essere attenuato tagliando il tasso overnight per la liquidità in eccesso.

Oppure, potrebbe essere ampliata la categoria dei titoli acquistabili, magari abbassandone i requisiti di elegibilità, anche per far fronte a un altro problema: la penuria di bund tedeschi se Berlino emetterà nuovi titoli solo per rifinanziare quelli in scadenza.

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