Economia

Risparmio gestito: quali prospettive?

Innovazione di prodotto, trasparenza, compliance, incentivi alla rete: ecco come si stanno muovendo le società e la distribuzione per rilanciare l'offerta

La crisi finanziaria è servita a risvegliare l’industria del risparmio gestito. Grazie anche alla maggiore attenzione delle banche (meno pressate dal problema della liquidità) alla raccolta indiretta, nell’ultimo anno il bilancio dei fondi d’investimento è tornato positivo. Quanto durerà l’interesse delle reti bancarie verso il risparmio gestito? Quali reazioni avranno i clienti eccessivamente esposti, per l’esigenza di proteggere il patrimonio, sull’obbligazionario da un futuro destinato a riservare poche soddisfazioni a questo comparto? Come reagiranno le case di produzione italiane alla fortissima concorrenza di quelle estere, che sembrano averle rilegate in un angolo? Sono i temi più importanti emersi dalla tavola rotonda su Asset management: le strategie e le sfide del mercato organizzata da BancaFinanza. Alla tavola, moderata dal direttore Angela Maria Scullica, e da Achille Perego, caposervizio economia e finanza di Qn, hanno partecipato: Stefano Grassi responsabile divisione private banking di Banca Generali; Gabriele Lobascio, member of board di Kline; Paolo Pignatelli, head of italian distribution di Pioneer investments; Suzanne Rohe, vicedirettore generale e direttore commerciale di Ubi Pramerica; Marco Rosati, amministratore delegato di Zenit sgr; Simone Rosti, executive director, head di Ubs Etf Italy; Massimo Scolari, segretario generale di Ascosim; Andrea Succo, responsabile wholesale Italia di Bnp Paribas investment partners, e Gabriele Tavazzani, condirettore generale e responsabile commerciale e marketing di Amundi sgr.

Domanda. Come sta cambiando il mercato dell’asset management a cinque anni dallo scoppio della grande crisi?

Rosati. Come sgr indipendente, diciamo di nicchia, non siamo l’osservatorio privilegiato per analizzare i grandi numeri del sistema. Da una parte, però, mi sembra che prosegua in modo forte il trend di penetrazione nelle reti delle grandissime case internazionali, con la delega ai gestori esteri anche dei prodotti messi a punto dai distributori o dalle sgr italiane. Dall’altra parte, guardando alla nicchia in cui operiamo, si assiste dopo tanti anni a un’apertura a
sgr come la nostra, frutto di una selezione più attenta verso chi propone prodotti particolari. Più in generale vedo da parte di un buon numero di distributori, grandi reti di promotori o banche un ampliamento dell’offerta, che va di pari passo con la ripresa abbastanza vivace della raccolta da parte del sistema dei fondi.

Grassi. Concordo sul fatto che è avvenuta una grandissima espansione delle case estere e, soprattutto nell’ambito delle reti, un’apertura verso prodotti di terzi e non solo di casa. Sempre a livello di trend, segnalerei un’integrazione sempre più forte tra produzione e distribuzione. Prima si metteva a disposizione del cliente cataloghi prodotto vastissimi, lasciando la scelta finale al distributore; ora si rafforza il legame produttore-distributore. Del resto, con la crisi nessuno compra più a scatola chiusa. È diventato fondamentale capire in che cosa si investe e quindi sono vincenti i modelli che privilegiano la chiarezza, la semplicità, la trasparenza, la liquidità. Contemporaneamente, è impossibile fare una consulenza adeguata se non c’è un forte coinvolgimento dell’asset allocation. Voglio dire che il tema dell’investimento va affrontata all’interno di un’ottimizzazione complessiva del portafoglio e non solo basando le scelte sui singoli strumenti, valutati magari in base alle “stellette” o alle performance del passato.

Pignatelli. Il risparmiatore italiano accantona sempre meno e utilizza sempre di più il patrimonio accumulato dalla famiglia. Quindi le sgr devono focalizzarsi su come gestire nel modo più efficiente un patrimonio che non cresce e che deve essere protetto e servire per integrare il reddito o garantire lo stesso tenore di vita. Negli ultimi anni l’andamento del mercato azionario non ha offerto grandi rendimenti e molti investitori hanno perso in conto capitale. Contemporaneamente, è cambiata ed è migliorata la cultura del risparmiatore che chiede un maggiore livello di trasparenza. Per questo, la vicinanza della fabbrica-prodotto alla rete è molto importante per soddisfare il cliente, che vuole sapere dove finiscono i suoi risparmi. Dal lato istituzionale, invece, vedo un mercato maturo, dove emergono le società che si focalizzano su determinate asset class: la maggiore selezione premia il merito, indipendentemente dalle relazioni e dalle conoscenze.

D. La richiesta di trasparenza riguarda anche il tema dei costi e quindi delle commissioni?

Pignatelli. Per un’industria matura era inevitabile una riduzione fisiologica dei prezzi dovuta al miglioramento dell’efficienza e alle economie di scala. Detto questo, proprio perché il cliente è più maturo e competente, la componente costo non è la principale caratteristica che prende in considerazione. Il cliente vuole sapere se il gestore è valido, se ha generato performance. Se poi i migliiori costano di più, nessuno si lamenta.

D. Nuove strategie delle sgr: quali sono i trend più evidenti?

Tavazzani. Il primo aspetto è sicuramente quello legato all’aumento della raccolta del risparmio gestito. Ci troviamo, dopo anni in cui i riscatti sono stati prevalenti, in un mercato con flussi positivi e un record in termini di volumi (oggi rappresentano circa un terzo delle attività finanziarie delle famiglie). Non si tratta di nuovo risparmio, ma di una riallocazione degli stock dopo le batoste subite dai clienti dal 2008. Le performance positive dell’obbligazionario hanno agevolato questo spostamento di investimenti verso i fondi comuni che in Italia, però, rappresentano ancora
una piccola percentuale del mercato. Il ritorno sui fondi si è accompagnato ad altri due fenomeni: l’uscita delle banche dalla logica della distribuzione del singolo prodotto per dotarsi di strumenti di consulenza per i clienti e il trasferimento dei risparmi dall’amministrato al gestito mediante fondi con una gestione “semi passiva” e a scadenza predefinita. In questo modo, le banche hanno intercettato l’esigenza dei clienti, tradizionalmente avversi al rischio, alla ricerca di strumenti di investimento un po’ simili al classico titolo obbligazionario con cedola. Del resto, anche il risparmiatore meno preparato ha visto negli ultimi mesi che anche un Btp può maturare perdite rilevanti in determinate condizioni di mercato. Quindi si è tornati a parlare ai clienti di diversificazione e di risparmio gestito, ma con più qualità rispetto al passato. Questo cambiamento ha fatto sì che alle “fabbriche” non si richieda più solamente il singolo prodotto ma veri e propri strumenti di supporto per l’asset allocation dei portafogli dei clienti. E quindi anche molta formazione alla rete e ai consulenti, per far capire che cosa succede davvero sui mercati. Questo ha determinato la necessità di una ristrutturazione dell’attività delle sgr, che si devono dotare di desk di consulenza, preferibilmente basati localmente perché più a contatto con le reti distributive, e non fare solo la gestione dei portafogli di solito concentrata nella casa madre. Quindi un’attività, diciamo così, più locale, che preveda la consulenza sui mattoncini con cui si costruisce la gestione del portafoglio complessivo. Di conseguenza, anche le reti sono diventate più selettive: se prima la discussione sulle retrocessioni era un elemento determinante, oggi ci si domanda chi è il miglior gestore per una determinata asset class. Si ricerca, insomma, chi abbia un interesse comune con il distributore nel proporre un prodotto distintivo, brandizzato, che realizzi performance consistenti e stabili nel tempo e abbia la capacità di attirare l’interesse dei clienti, e quindi, di generare una raccolta positiva

Scolari. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una svolta. Fino all’anno scorso, esaminando i dati di Bankitalia,
la domanda era rivolta maggiormente a strumenti finanziari di protezione o a forme di conto deposito con un rendimento predeterminato. Una scelta dettata dalle gravi instabilità che si erano verificate tra la fine del 2011 e l’inizio dello scorso anno. Negli ultimi mesi il contesto è cambiato: l’andamento nel 2012 degli indici obbligazionari e azionari, che credo abbia pochi paragoni nella storia recente dei mercati, ha riportato in evidenza l’importanza del risparmio gestito. E i clienti, che hanno visto attenuarsi l’instabilità, sono diventati meno apprensivi e quindi più propensi a investimenti nei fondi. Il risparmiatore non è alla ricerca solo di proteggere il capitale, ma anche di un rendimento positivo. Nella prima metà di quest’anno, la raccolta dei fondi è quindi tornata al segno “più” sia per il contributo delle reti dei promotori finanziari (che a dire il vero avevano mantenuto costante l’attenzione al risparmio gestito) sia per il ritorno da protagoniste di molte banche italiane, che hanno ricominciato a proporre fondi di investimento alla clientela. Dentro questa ripresa dei fondi c’è una netta predominanza della componente obbligazionaria, molto superiore alla media europea. Tuttavia, il contesto attuale dei rendimenti di mercato difficilmente consentirà ai fondi obbligazionari di ripetere le performance degli anni scorsi. Così si ricade nel vecchio vizio di essere un po’ troppo accondiscendenti con i risultati del passato, mentre non si lavora abbastanza per ampliare la quota degli investimenti azionari, soprattutto da parte delle banche. Credo che sarebbe opportuna una spinta verso la riqualificazione dei portafogli verso l’equity e investimenti alternativi e flessibili. Altrimenti, tra 12-18
mesi, ci ritroveremo con clienti insoddisfatti dei rendimenti molto contenuti.

D. Le commissioni però sono diventate meno pesanti?

Scolari. Non mi sembra che siano scese più di tanto: non si percepiscono economie di scala che si trasferiscano su minori commissioni. Sono d’accordo sul fatto che le commissioni sui fondi azionari, flessibili, alternativi non siano un elemento principale. Ma nel campo obbligazionario, con risultati attesi nel medio periodo inferiori al benchmark del mercato, la commissione è importante per la sostenibilità della crescita. Inoltre, vorrei evidenziare anche i rischi dei prodotti a cedola che vanno molto di moda. Ne esistono due tipi: uno distribuisce i proventi realizzati, e quindi mantiene la variabilità della cedola tipica del rendimento del fondo. È un prodotto su cui non ho nulla da obiettare: anzi, credo che sia uno strumento importante per integrare i redditi dei risparmiatori. Altra cosa, invece, sono i fondi con cedola fissa che prevedono, nel caso in cui il rendimento non sia sufficiente, la distribuzione del capitale. A mio avviso si tratta di strumenti pericolosi. Oltre a snaturare il concetto stesso di risparmio gestito, alimentano comportamenti che non proteggono l’investitore e rappresentano un elemento di criticità nell’offerta del mercato.


Pignatelli. Non credo che i fondi obbligazionari oggi generino problemi di costi: negli ultimi anni, con posizioni attive, il rendimento ottenuto è stato più che sufficiente per compensare le commissioni di gestione. In futuro, ritengo che vada affrontato il tema della diversificazione nell’equity per bilanciare la possibile compressione dei rendimenti obbligazionari. Ma devo dire che, operando direttamente sulla rete, noto che è difficile collocare prodotti azionari puri. Il cliente finale continua a non esserne particolarmente attratto. Noi collochiamo asset class mentre i clienti vorrebbero che gli fossero vendute risposte alle loro esigenze o bisogni, che non sono quelle di investire nell’azionario, ma di tutelare il loro risparmio. Nella distribuzione esiste una propensione a indirizzarsi verso strumenti più bilanciati. Torneremo a prodotti che abbinano una parte obbligazionaria, (necessaria, anche se in presenza di rendimenti modesti), a una più rischiosa, ma altamente diversificata e in percentuali comunque
contenute.

Lobascio. Le commissioni, più che diventare meno “pesanti”, stanno cambiando forma e metodo di applicazione. I nuovi business model degli intermediari si stanno orientando verso servizi che diano la sensazione al cliente finale di una maggiore sensibilità all’approccio tailor made (quasi sfiorando la logica della consulenza e del family office). Esistono - ed esisteranno sempre - le logiche di remunerazione standard, come il mercato conosce e applica storicamente. Ma la diversificazione e personalizzazione saranno fattori discriminanti anche in ottica di nuove metodologie e logiche commissionali. In questi ultimi anni abbiamo assistito (e partecipato come fornitori di soluzioni) a una forte industrializzazione dei processi interni ed esterni degli intermediari che si occupano di asset management. In futuro sarà sempre più necessario - e, perché no?, forse anche commercialmente spendibile - far comprendere al risparmiatore la propria consapevolezza finanziaria, soprattutto rispetto alle politiche di investimento proposte dall’intermediario. Questo potrebbe essere uno degli elementi che caratterizzerà la nascita (con l’eventuale riduzione) di nuove logiche commissionali.

D. È stato sollevato il tema del rischio dei prodotti a cedola: ma sono davvero così pericolosi?

Rohe. Prima di rispondere a questa domanda, tornerei sul tema del cambiamento del mercato e dei clienti avvenuto in questi anni. La crisi finanziaria e dell’euro, il venir meno del cosiddetto risk free, la necessità di diversificare le asset class e investire anche fuori dall’Europa sono tutti fenomeni che hanno creato parziale disorientamento
nel risparmiatore. Come industria, quindi, dobbiamo cogliere e capire questo cambiamento, compresa la forte richiesta di consulenza, che si manifesta a tutti i livelli, in particolare per chi dispone di patrimoni consistenti. Bisogna prendere parte da protagonisti al cambiamento, per gestirlo e saper proporre al cliente soluzioni appropriate. Abbiamo dunque affiancato alla nostra offerta tradizionale nuovi prodotti che possano essere considerati dal cliente soluzioni di investimento “chiavi in mano” e che siano in grado di aiutarlo a orientarsi verso scelte di investimento adatte al contesto. Il mercato non è semplice da interpretare e una gestione professionale è oggi più che mai necessaria per aiutare il cliente a realizzare i propri obiettivi. Certamente la situazione di mercato non è semplice, e per questo stiamo ulteriormente intensificando l’attività di supporto alla rete di vendita. Oggi è sempre più importante mettere il distributore in grado di vendere in maniera corretta, fornendogli consulenza di qualità, per consentirgli di proporre al risparmiatore la possibilità di una diversificazione globale degli investimenti.

Succo. Credo che lo scarso peso dell’equity nell’asset allocation sia determinato non solo dalla diversa cultura
finanziaria dei risparmiatori italiani, ma anche dall’assenza di incentivi fiscali a investire nell’azionario. Incentivi presenti, per esempio, in Francia, che hanno determinato un maggiore investimento in equity. Venendo al tema generale dello stato di salute del settore, credo che mostri una notevole solidità, con una crescita degli attivi fino a 1.200 miliardi di euro favorita da un quadro economico-finanziario più rasserenato. Del resto si tratta di un settore ciclico, dove l’andamento della raccolta è direttamente proporzionale alle performance dei mercati. Risultati che però non sempre i clienti sanno cogliere, perché troppo orientati alla protezione del patrimonio. Il terzo aspetto che vorrei evidenziare riguarda la riscoperta del fondo di investimento. Il primo amore degli italiani verso i fondi era nato più di 20 anni fa: in tutto questo periodo, i fondi hanno dimostrato di essere flessibili e adattabili, dalla componente assicurativa (penso alle unit linked, a strumenti convertibili o decorrelati con i mercati). Oggi la percentuale dei portafogli investita in fondi è cresciuta, si è ridotto il fai-da-te. E il cliente si affida sempre di più a un professionista che sappia fornirgli un’adeguata consulenza.

D. Quanto è stato importante il ruolo delle banche nella crescita del risparmio gestito?

Rosti. Nel valutare questo settore bisogna distinguere la distribuzione dalla gestione e dalla produzione.
Occupandomi di Etf, tipico prodotto da gestore e da cliente istituzionale, devo fare una considerazione un po’ amara: l’Italia sta perdendo l’occasione per rimanere un paese anche di produzione. Se ne fa sempre di meno, mentre cresce la distribuzione. Le sgr estere offrono ottimi prodotti, e sono state interessate da un processo di fusioni e aggregazioni. Quelle italiane, in particolare di estrazione bancaria, hanno perso una grande occasione, in particolare quella fornita dalla specializzazione, nonostante la qualità dei portfolio manager. Le case italiane hanno mantenuto un approccio generalista che non sempre premia, anche se noto come stiano emergendo alcune case che si stanno specializzando sulla gestione di alcuni prodotti. Non sono d’accordo, invece, sul fatto che al cliente il costo dei prodotti non interessi. Per le gestioni patrimoniali, quello dei costi è un elemento fondamentale per permettere un buon livello di performance.

D. Quale spazio si può ancora creare in Italia per le sgr indipendenti e le case di produzione?

Rosati. Le sgr italiane sono da dieci anni una specie in via di estinzione, anche perché nel nostro paese la vigilanza è molto seria e le obbliga a forti investimenti e a sostenere costi alti. Questo è sicuramente un bene per la tutela del mercato, ma purtroppo le norme non sono le stesse in tutta Europa. E poiché si possono liberamente distribuire in Italia prodotti gestiti da intermediari soggetti a regole applicate in modo molto più blando dalle autorità dei rispettivi paesi, viene a crearsi una distorsione competitiva che induce l’industria italiana a delocalizzare. Abbiamo assistito a una migrazione all’estero e a una “estero-vestizione” delle nostre sgr. Oggi è impossibile o quasi per i professionisti privati intraprendere questa attività in Italia. Ci sono troppe barriere e tutto è più complicato, vigilato, burocratizzato. Caratteristica del resto che riguarda in generale il nostro paese. Intendiamoci, non ho nulla contro l’ingresso delle case estere: è giusto che i più grandi gestori del mondo, con grandi capacità, possano arrivare anche da noi. Altra cosa, però, è l’assoluta esterofilia degli italiani, anche dei distributori: pensano che un brand straniero sia più facilmente vendibile e agevoli il collocatore. Questo ha portato a una desertificazione dell’industria in Italia, con risvolti pessimi sull’intero sistema economico: si è limitato l’accesso delle aziende ai mercati dei capitali e
creando pericolose concentrazioni degli investimenti e dei rischi sui portafogli dei risparmiatori, come dimostrato dal peso della raccolta registrata dai fondi azionari e obbligazionari specializzati sui paesi emergenti.

D. Come si può fronteggiare il rischio di un’eccessiva esposizione nell’asset obbligazionario?

Grassi. Non credo molto agli strumenti bilanciati. Se si uniscono esigenze opposte, i risultati sono spesso insoddisfacenti e comunque sempre difficili da valutare. Anche il concetto di strumento flessibile è molto vago: sono prodotti dove può esserci di tutto e il cliente non percepisce nemmeno che cosa è presente all’interno del fondo. Credo che il mondo ideale sia quello con una netta distinzione tra investimento obbligazionario e azionario. Anch’io condivido il rischio, in questa fase, di una esposizione eccessiva sull’obbligazionario. Allo stesso modo reputo un rischio i prodotti a cedola concentrati sui mercati emergenti. Garantire negli anni futuri le cedole su questo tipo di asset non sarà così facile. Noi non li distribuiamo, anche se questa scelta può comportare nel breve termine qualche sacrificio in termini di raccolta, ma più che compensato nel medio termine in termini di soddisfazione del cliente. Infine, non vedo nemmeno singoli prodotti in grado di rispondere a tutte le esigenze. Ecco perché è diventata più forte l’esigenza di consulenza.

Tavazzani. Il rischio sull’obbligazionario, nell’ottica di un rialzo dei tassi, rappresenta una preoccupazione fortissima, soprattutto per le reti bancarie. Il risparmio gestito è ripartito, anche allo sportello, e i clienti  - nel momento in cui vedranno che le performance saranno inferiori rispetto al passato - potrebbero non capire. Ed essere quindi portati a disinvestire. Rivivremo il 1994, quando l’obbligazionario era andato male e anche i fondi bilanciati non erano riusciti, con la parte equity, a compensare le perdite. Una situazione che ha fatto male al risparmio gestito: dobbiamo evitare che si ripeta, anticipando questa situazione e consigliando ai clienti una riallocazione della componente obbligazionaria verso prodotti flessibili, a budget di rischio, in grado di cogliere le opportunità sull’obbligazionario, fino a quando ci saranno. E a cambiare rapidamente l’allocazione, per evitare perdite nel momento di un rialzo repentino dei tassi di interesse.

Rohe. Il rischio di un'eccessiva esposizione nell'obbligazionario si fronteggia con la diversificazione. Anche noi consideriamo un po’ rischiosa, in questa fase di mercato, la predominanza di portafogli obbligazionari. D’altro canto, però, in Italia c’è una certa riluttanza a investire nell’equity rispetto a quanto accade in altri paesi, come Usa e Inghilterra.

Per questo offriamo prodotti con equity, ma anche con la protezione. 


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