Economia

"Il ritiro di Mittal dall'Ilva è un danno da 3,5 miliardi"

I commissari attaccano il gruppo franco-indiano: "Hanno mentito e ora fuggono. È capitalismo d'assalto"

"Il ritiro di Mittal dall'Ilva è un danno da 3,5 miliardi"

Un affondo che sa d'avvertimento. ArcelorMittal e le sue inadempienze - ossia «il fallimento del progetto di preservazione e rilancio dei rami d'azienda» - potrebbero portare «a un impatto economico, pari ad una riduzione del Pil di 3,5 miliardi». L'azienda franco indiana avrebbe detto, inoltre, «falsità» sull'immunità penale, e farebbe «capitalismo d'assalto», improntato sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite.

Questo, in sintesi, il nuovo duro attacco contenuto nella memoria di replica presentata dai legali dei commissari dell'ex Ilva nel contenzioso civile in corso a Milano con il gruppo franco indiano, la cui prossima udienza è fissata il 7 febbraio. Un atto dovuto in attesa dell'accordo programmato per fine mese? In parte. «Anche se - spiega una fonte vicina alla vicenda - l'affondo dei commissari sembra l'ennesima carta disperata che sta giocando il governo per tutelarsi da un'intesa che stenta a decollare». La scadenza è per fine mese, ma ancora i sindacati non sono stati convocati, né trapela nulla di decisivo sulla trattativa. Ecco, allora, che le 86 pagine redatte dagli avvocati Giorgio De Nova, Enrico Castellani e Marco Annoni suonano come un nuovo ultimatum e per alcuni «come la dimostrazione che questa battaglia, alla fine, si giocherà in aula». L'affermazione di ArcelorMittal, secondo cui «la mancata estensione temporale dello scudo penale renderebbe impossibile attuare il piano ambientale senza incorrere in responsabilità (anche penali) conseguenti a problemi ambientali ereditati dalla precedente gestione non è pertanto una semplice mistificazione, ma piuttosto una conclamata falsità», scrivono gli avvocati per i quali è «soltanto la raffazzonata giustificazione» utilizzata per sciogliersi da un rapporto contrattuale «non più ritenuto nel proprio interesse» e il «grimaldello» attraverso il quale «tentare di fare saltare l'assetto negoziale». Una carta servita su un piatto d'argento dal governo che, all'epoca, conosceva bene le resistenze della multinazionale a restare a Taranto.

Nel mirino dei commissari anche la decisione del tribunale del Riesame di Taranto sull'altoforno 2 - che ha annullato l'obbligo di spegnimento: «È venuto meno - spiegano - il presupposto di gran parte delle argomentazioni» di ArcelorMittal per il disimpegno dall'Ilva. ArcelorMittal, si ricorda nella memoria, infatti, aveva indicato il funzionamento dell'altoforno 2 (sotto sequestro per la morte di un operaio), insieme alla «protezione legale», come presupposti base per continuare a operare a Taranto. Insomma, la multinazionale avrebbe sbagliato tutto e anche oggi starebbe portando avanti la gestione dei rami d'azienda «su una base nettamente depressa ed insufficiente rispetto alla capacità produttiva». In più, «la consistenza del magazzino anziché essere orientata all'approvvigionamento è fortemente sbilanciata sul prodotto finito». ArcelorMittal ha portato avanti le «consuete logiche di un certo tipo di capitalismo d'assalto secondo le quali se a valle dell'affare concordato si guadagna, allora guadagno io», mentre, se invece si perde, allora «perdiamo insieme», continuano i commissari che spiegano che il gruppo «cerca oggi di imporre surrettiziamente una riduzione del personale di circa 5.000 unità». Un danno che sarebbe incalcolabile e concretamente irreparabile perchè l'ex Ilva in amministrazione straordinaria «non ha né la struttura, né i mezzi per reagire all'inadempimento di Mittal per mitigarne i danni». Lo mettono nero su bianco i commissari in sede legale.

Mentre il governo tace.

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