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Se l'azienda Italia se ne va lo Stato perde 11 miliardi

Sono le tasse pagate da medie e grandi imprese. Il trasferimento delle loro sedi all'estero costerebbe come una manovra finanziaria

Fiat-Chrysler e GTech hanno già deciso di traslocare la sede oltre le Alpi prendendo casa tra Londra e Amsterdam, Pietro Salini ha ammesso che ci sta facendo un pensiero per la sua Salini Impregilo e primo general contractor del Paese. Finora si tratta di scelte isolate, ma quello che fa riflettere è la ricaduta potenziale per le casse pubbliche se questo fenomeno, battezzato tax inversion , diventasse «sistemico». Il conto, pur scolastico, è presto fatto: sparirebbero quasi 11 miliardi di gettito. Praticamente come se il governo mancasse di colpo una piccola finanziaria o come se le banche italiane fossero «rapinate» in una notte del bottino raccolto in questi mesi con gli aumenti di capitale per affrontare gli esami patrimoniali europei.

La provocazione si basa sull'ultima edizione del volume «Dati Cumulativi» curato da R&S Mediobanca, da cui si evince come il coacervo della media e grande impresa nazionale nel 2013 abbia totalizzato 37,86 miliardi di profitti lordi (lo studio scandaglia i bilanci di 2.050 realtà). A fronte dei quali la Corporate Italia ha corrisposto appunto 10,88 miliardi di imposte. Ma se i capitani d'industria perdessero davvero la pazienza e delocalizzassero in toto per esempio in Irlanda, con gli stessi utili, dovrebbero al fisco 4,92 miliardi. Con un risparmio quindi di 5,96 miliardi e un confronto imbarazzante per l'Italia. Il motivo è il tax rate, in soldoni la misura di quanto è vorace il fisco, che nel 2013 nello Stivale era il 28,7% medio per le imprese contro il 13% di Dublino (imposte sul reddito diviso l'utile ante imposte, escludendo le realtà in perdita). Dove, non per nulla, hanno già aperto uffici molti gruppi finanziari e la quasi totalità dei Signori del risparmio gestito.

La politica dovrebbe poi riflettere sul messaggio implicito sottostante al fatto che alcuni big italiani, non appena riescono a mettere a segno un'importante acquisizione industriale all'estero, sfruttano l'occasione per sfuggire a un Paese che prima li soffoca con aliquote e burocrazia. Poi restituisce ben poco in termini di qualità dei servizi, come sperimentano ogni giorno artigiani e piccoli imprenditori. La decisione di espatriare, sia ben chiaro, non viola alcuna norma.

È sciocco presupporre che capannoni e impianti fossero spostabili come scrivanie e computer, ma la tendenza tra i big rimane. Come dimostra il piano dell'americana Burger King per mangiarsi le ciambelle e le caffetterie canadesi Tim Hortons. L'operazione, da 11,4 miliardi di dollari, permetterà al colosso dei fast food di trasferirsi in Ontario. Non esattamente un paradiso fiscale, ma pur sempre un luogo dove le tasse sulle imprese si fermano al 20% medio (15% nazionale e 5% di addizionale locale). Tanto che a finanziare le nozze per 3 miliardi c'è una volpe di Wall Street, Warren Buffet. L'uomo a cui Barack Obama, che considera la tax inversion una sorta di «diserzione», aveva dedicato la norma che vieta a ricchi americani di chiedere sconti al fisco.

La scelta di Burger King comunque non è isolata e nel mondo della finanza le battaglie di principio e i paletti servono a poco. Perché il denaro rifluisce, quasi per legge di gravità, dove conviene. E dove le condizioni sono migliori per fare impresa e profitti, con cui ripagare gli investimenti, sfamare i grandi azionisti con i dividendi e elargire stock option ai top manager. Se lo stesso insieme delle aziende italiane, monitorato da Medioanca, seguisse in Ontario Burger King pagherebbe in imposte 7,57 miliardi, ritrovandosi quindi in tasca 3,3 miliardi in più rispetto all'assegno da 10,8 miliardi necessario in Italia.

Certo il tax rate dell'Ontario è molto basso anche per il Canada (dove la tassazione corporate può arrivare al 30%). Ma potremmo chiederci cosa accadrebbe se emigrassero in Irlanda o in Nord America, altre realtà come Eni, Enel, Luxottica, Pirelli o il gruppo Benetton.

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