In un anno le aziende italiane hanno perso 260 miliardi di euro di valore. Di questi, 126 miliardi sono stati «persi» dalle spa quotate in Piazza Affari. Il totale del valore delle società per azioni del nostro Paese è, secondo quanto stimato dal Centro studi Unimpresa sui dati di Bankitalia, è passato dai 2.077,9 miliardi del 2015 ai 1.818,6 miliardi dell'anno scorso con un calo del 12,5 per cento. In particolare, la capitalizzazione delle imprese presenti sui listini è scesa da 545,6 miliardi a 419,4 miliardi, in diminuzione del 23,1% su base annua.
Sulla base della proprietà delle singole partecipazioni, prosegue Unimpresa, si evidenzia come le famiglie abbiano perso valore per 173,2 miliardi (-18,7%), gli investitori stranieri per 66,3 miliardi (-13,2%), le imprese per 19,3 miliardi (-7%), le banche per 2,1 miliardi (-1%), le assicurazioni e i fondi pensione per 816 milioni (-2,1%). Le quote in mano allo Stato centrale sono invece cresciute di 2,6 miliardi (+2,7%). Variazione positiva anche per quelle delle amministrazioni locali, salite di 140 milioni (+1,1%). Discorso leggermente differente per le società quotate: gli azionisti esteri hanno perso 71,8 miliardi (-25,4%), le imprese 25,1 miliardi (-24%), le famiglie 18 miliardi (-26%), le banche 10,2 miliardi (-18,9%), mentre le assicurazioni e i fondi pensione 3,5 miliardi (-21%). Le quote in mano allo Stato sono invece cresciute di 2,6 miliardi (+17,1%) e quelle delle amministrazioni locali, salite di 140 milioni (+5,8%).
Tale discrepanza nella ripartizione delle perdite dovute a calo dei prezzi di Borsa, alla diminuzione del patrimonio o alle svalutazioni apportate nei bilanci è da attribuirsi alla diversa composizione dell'azionariato fra società quotate e non quotate. Nelle prime, infatti, sono i soci esteri a farla da padrone in quanto detengono più della metà (50,2%) del capitale, anche se tale percentuale risulta in calo rispetto al 2015 quando si attestava al 51,7 per cento. Seguono poi le imprese col 19% (era il 19,2% nel 2015), le famiglie con il 12% (12,2%), le banche col 10,5% (9,9%), lo Stato col 4,4% (2,9%), le assicurazioni e i fondi pensione col 3,2% (3,1%). Quote marginali sono poi riconducibili alle amministrazioni locali e agli enti di previdenza.
Per quanto riguarda l'intero universo delle società per azioni del nostro Paese, la fetta maggiore è in mano alle famiglie: 41,3% (44,5% nel 2015). Seguono gli investitori stranieri col 23,9% (24,1%), le imprese col 14,2% (13,4%), le banche con il 12% (10,6%) e lo Stato col 5,7% (5%), le assicurazioni e i fondi pensione col 2,1% (1,9%). Questi dati rappresentano con i numeri una realtà della quale spesso si dibatte: le imprese quotate ormai appartengono in maggioranza a capitali stranieri, mentre quelle non quotate sono per lo più a conduzione familiare.
La quota lievemente crescente in mano alle banche evidenzia come, a causa della crisi, i debiti in alcuni casi siano stati convertiti in capitale, mentre la sostanziale assenza di assicurazioni e fondi pensione fa risaltare la limitatezza complessiva del mercato dei capitali in Italia in quanto fondi e compagnie spesso non possono investire per statuto in small cap o in società sprovviste di rating di affidabilità finanziaria. E così, come ha commentato il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara, «senza che ce ne accorgiamo, assistiamo al depauperamento del made in Italy».
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