Uno dopo l'altro, sbocciano ovunque i fiori del male, quelli con l'odore greve della recessione. L'ultimo è spuntato ieri negli Usa, e ha cancellato l'illogica euforia sui mercati creata martedì dalla decisione di Donald Trump di posticipare a dicembre l'introduzione di nuovi dazi sulle merci cinesi. I petali velenosi sono l'inversione della curva dei rendimenti fra i T-Bond a due anni e dieci anni. Un sorpasso che non si vedeva dal maggio 2007: i tassi dei primi sono saliti all'1,682% contro l'1,619% dei decennali, mentre il trentennale ha rischiato di scendere sotto il 2%. Identico lo scenario in Gran Bretagna, con rendimenti più alti per i Gilt biennali a discapito di quelli a 10 anni.
Il fenomeno è provocato da una richiesta maggiore di titoli a più lungo termine, ritenuti più sicuri, che ne comprime i tassi e ne alza i prezzi. Questo ribaltamento è ritenuto inquietante perché il confronto fra le due scadenze non presenta i «rumori di fondo» tipici dello spread fra un trimestrale (molto sensibile, per esempio, alle mosse della Fed) e un dieci anni, e dà quindi una misura precisa dei timori di un deterioramento dell'economia così pronunciato da trascinare, appunto, il Paese nella palude recessiva. Negli Stati Uniti, storicamente, ciò è quasi sempre avvenuto a distanza di 12-18 mesi dal rovesciamento della curva dei tassi.
Siamo insomma alle prese con un predittore di crisi certo non infallibile, ma fortemente affidabile. Soprattutto se unito alle nubi nere che addensando sull'economia globale. Anche ieri il bollettino non è stato confortante. In Cina la produzione industriale è cresciuta in luglio appena del 4,8%, il passo più lento da 17 anni. Zoppica il Dragone, impiombato dalla guerra commerciale con gli Usa, arranca la Germania: l'asfittico andamento delle esportazioni ha presentato il conto sotto forma di una contrazione dello 0,1% del Pil nel secondo trimestre. Un'altra battuta d'arresto fra luglio e settembre, e Berlino sentirà i morsi della recessione tecnica. Se il governo non allargherà i cordoni della borsa, preferendo cercare di schiacciare il debito sotto il 60% del Pil piuttosto che puntare su una crescita anche in deficit spending, la situazione potrebbe peggiorare. Di riflesso, anche per l'Italia.
I mercati assistono a questo stillicidio di dati negativi amplificati dal complicarsi della trade war (il segretario al Commercio Usa, Wilbur Ross, ha detto che non è stata ancora fissata una data per il prossimo round negoziale con l'ex Celeste Impero), dai rischi di una Brexit senza accordo, dalla crisi di governo italiana e dal profilarsi in Argentina di un ritorno al potere di un regime peronista. Solo la possibilità di ulteriori aiuti da parte della Bce (il presidente Mario Draghi ha già prospettato il riavvio del Qe) e della Fed ha finora evitato il peggio. Ieri, però, per le Borse non c'è stato scampo: male l'Europa, con lo Stoxx600 giù dell'1,8%, e ancor peggio Piazza Affari (-2,53%) incapace di reggere l'onda d'urto dei titoli bancari (-3,7% Unicredit, -2,3% Mediobanca) e affossata anche da Saipem (-4,6%) e Fca (-3,5%). Diluvio di vendite a Wall Street, alle ore 20 italiane il Dow Jones perdeva il 2,2% (-2,6 il Nasdaq).
Di fronte alla picchiata, Trump ha rimesso nel mirino la Fed: «Deve fare qualcosa! La Federal Reserve ha agito in maniera troppo frettolosa e ora è molto, molto tardi», ha twittato. The Donald vuole poi incentivare l'acquisto della prima casa, allentando le norme per la concessione dei prestiti. Una scelta pericolosa perché aumenta il rischio degli incagli.
Alcuni analisti avvertono poi che un esacerbarsi del braccio di ferro Usa-Cina può innescare un esodo di massa dalla Borsa di New York tale da far precipitare gli indici del 25-30%. Poiché il valore delle azioni rispetto al Pil è su livelli record, per l'economia Usa sarebbe il colpo di grazia.
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