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Lo Stato deve restituire 1 miliardo a Tim

La Corte d'Appello decreta il rimborso al gruppo del canone del 1998. Ma il governo fa ricorso

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Buone notizie per le casse di Tim. Ieri, infatti, la Corte d'Appello di Roma ha chiuso in favore del gruppo guidato da Pietro Labriola un contenzioso durato quindici anni relativo alla restituzione del canone concessorio preteso per il 1998, l'anno successivo alla liberalizzazione del settore stabilito da una direttiva europea, e richiesto in restituzione dalla società. Originariamente la cifra era di 528 milioni di euro, a cui però il giudice ha stabilito l'aggiunta di 385,9 milioni per gli interessi e poi 142,7 milioni corrispondente «al costo medio del capitale impiegato». Il totale, quindi, arriva a superare di poco il miliardo di euro.

Essendo la sentenza immediatamente esecutiva, Tim ha annunciato nel suo comunicato che avvierà fin da subito la procedura per il recupero dell'importo dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che è stata condannata anche a pagare metà delle spese di lite sostenute da Tim. Musica per il titolo in Borsa che, tra le altre cose, dopo la presentazione del piano industriale post vendita della rete era stato penalizzato da un miliardo di debito in più rispetto alle attese. Tant'è che, al diffondersi della notizia, il titolo è scattato immediatamente e ha chiuso nel finale di seduta con un +5,2% a 0,23 euro. Palazzo Chigi, appreso del verdetto dei giudici, ha comunicato che farà ricorso in Cassazione «contro la sentenza che stabilisce il rimborso a Tim del canone risalente al 1998». Inoltre, il governo chiederà «la sospensione degli effetti esecutivi della pronuncia».

I precedenti, tuttavia, non giocano a favore dello Stato perché, con sentenza del 7 settembre 2020, la Cassazione aveva già respinto il ricorso contro la quale «codesta Corte aveva accolto la domanda restitutoria proposta da Vodafone» per la cifra di 49 milioni. Insomma, il supporto di un'altra sentenza rende Tim relativamente tranquilla sui futuri sviluppi processuali.

Per capire meglio la vicenda, però, occorre fare un passo indietro. Fino al 1998 lo Stato ha preteso il pagamento di un canone di concessione alle aziende del settore telecomunicazione che corrispondeva al 3% del fatturato realizzato nell'anno. Il fatto è che una direttiva europea del 1997 sulla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni (la 97/13/CE ) aveva sancito che uno Stato membro non poteva più esigere da un operatore autorizzato, già titolare di un diritto esclusivo sui servizi di telecomunicazioni pubbliche, il pagamento di un onere pecuniario. Le norme nazionali italiane, tuttavia, avevano stabilito una proroga al 1998 per il pagamento del canone concessorio. Tim ha quindi sborsato la cifra richiesta per poi ricorrere alla giustizia amministrativa. Ne è nata una lunghissima diatriba giudiziaria fatta di ricorsi e contro-ricorsi. Sulla vicenda è più volte intervenuta la Corte di Giustizia dell'Unione europea, che aveva segnalato il contrasto della normativa nazionale con la direttiva europea.

L'ultima nel corso del 2020, con la quale la magistratura europea vietava l'applicazione di un canone in percentuale sul fatturato e permetteva solo la richiesta di pagamento dei costi amministrativi connessi al rilascio, alla gestione, al controllo e all'attuazione del regime di autorizzazioni generali e di licenze individuali.

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